amami come sei...

AMAMI COME SEI (Gesù parla a un’anima) “Conosco la tua miseria, le lotte e le tribolazioni della tua anima, le deficienze e le infermità del tuo corpo: - so la tua viltà, i tuoi peccati, e ti dico lo stesso: “Dammi il tuo cuore, amami come sei...”. Se aspetti di essere un angelo per abbandonarti all'amore, non amerai mai. Anche se sei vile nella pratica del dovere e della virtù, se ricadi spesso in quelle colpe che vorresti non commettere più, non ti permetto di non amarmi. Amami come sei. In ogni istante e in qualunque situazione tu sia, nel fervore o nell'aridità, nella fedeltà o nella infedeltà, amami... come sei.., Voglio l'amore del tuo povero cuore; se aspetti di essere perfetto, non mi amerai mai. Non potrei forse fare di ogni granello di sabbia un serafino radioso di purezza, di nobiltà e di amore ? non sono io l'Onnipotente ?. E se ml piace lasciare nel nulla quegli esseri meravigliosi e preferire il povero amore del tuo cuore, non sono io padrone del mio amore? Figlio mio, lascia che Ti ami, voglio il tuo cuore. Certo voglio col tempo trasformarti ma per ora ti amo come sei... e desidero che tu faccia lo stesso; io voglio vedere dai bassifondi della miseria salire l'amore. Amo in te anche la tua debolezza, amo l'amore dei poveri e dei miserabili; voglio che dai cenci salga continuamente un gran grido: “Gesù ti amo”. Voglio unicamente il canto del tuo cuore, non ho bisogno né della tua scienza, né del tuo talento. Una cosa sola m'importa, di vederti lavorare con amore. Non sono le tue virtù che desidero; se te ne dessi, sei così debole che alimenterebbero il tuo amor proprio; non ti preoccupare di questo. Avrei potuto destinarti a grandi cose; no, sarai il servo inutile; ti prenderò persino il poco che hai ... perché ti ho creato soltanto per l'amore. Oggi sto alla porta del tuo cuore come un mendicante, io il Re dei Re! Busso e aspetto; affrettati ad aprirmi. Non allegare la tua miseria; se tu conoscessi perfettamente la tua indigenza, morresti di dolore. Ciò che mi ferirebbe il cuore sarebbe di vederti dubitare di me e mancare di fiducia. Voglio che tu pensi a me ogni ora del giorno e della notte; voglio che tu faccia anche l’azione più insignificante solo per amore. Conto su di te per darmi gioia… Non ti preoccupare di non possedere virtù: ti darò le mie. Quando dovrai soffrire, ti darò la forza. Mi hai dato l’amore, ti darò di saper amare al di là di quanto puoi sognare… Ma ricordati… amami come sei… Ti ho dato mia Madre; fa passare, fa passare tutto dal suo Cuore così puro. Qualunque cosa accada, non aspettare di essere santo per abbandonarti all’amore, non mi ameresti mai… Va…”

sabato 9 ottobre 2010

CHI E’ VENUTO DALL’ALDILA’?

CHI E’ VENUTO DALL’ALDILA’?

Tratto da: L'ALDILA’ STUPENDA REALTA’ - Il Paradiso di P. GNAROCAS N.J. EDITRICE COMUNITÀ Via S. Pietro, 87 - ADRANO (Catania)

Don Teodosio Galotta, salesiano di Napoli, era am­malato così gravemente che i suoi parenti gli avevano preparato il loculo al cimitero con l'iscrizione già fatta.

L'urologo, dott. Bruno, fece questa diagnosi: Neo­plasia prostatica con metastasi ossee e polmonari, una prostata aumentata di volume, di consistenza lignea e di superficie bornoccoluta.

La diagnosi era stata confermata dalle radiografie: Alterazione strutturale del terzo prossimale del femore destro e delle branche ischio-pubiche, specie a sinistra, per lesioni del tipo osteolitico. Nei campi polmonari al­ti, specie a destra, presenza di noduli neoplastici meta­statici.

Descrivendo poi dettagliatamente quanto riscontra­to, il radiologo, pro f. Acampora, aveva aggiunto: L'alte­razione si presenta con scomparsa della normale trabecolatura ossea, sostituita da aree di osteolisi alternate ad aree di addensamento osseo, riproducenti il tipico quadro neoplastico del tipo osteoclastico e in parte osteoclastico. Successivamente si notò una frattura del piccolo trocantere di destra...

L'internista dott. Schettino, nella sua dichiarazio­ne scritta, aveva parlato, in occasione dei due gravi col­lassi periferici, di condizioni fisiche molto precarie e di situazione molto pericolosa per la vita del paziente. Il medico legale a sua volta, dopo aver esaminato tutta la documentazione, disse che si trattava di una diagno­si precisa e non di un sospetto diagnostico o di un enun­ziato nosologico di probabilità.

La notte del 25-10-1976 Don Teodosio Galotta arri­vò alla fine: era quasi in coma. L'assistente toccandogli il polso si lasciò sfuggire: Non si sente più.

Don Galotta, che ancora capiva, al sentire questo, invocò nel suo cuore i due martiri salesiani della Cina: Mons. Versaglia e Don Caravario, aiutatemi voi.

Subito gli comparvero i due martiri e gli dissero: Non temere, ci siamo noi.

All'istante Don Galotta guarì completamente. La do­cumentazione medica è ora a Roma presso la Sacra Con­gregazione per le Cause dei Santi, per la beatificazione dei due martiri.



Chi è venuto dall'aldilà?

L'episodio qui riportato è uno dei miracoli studia­ti dalla Chiesa per la causa di Beatificazione di Papa Gio­vanni XXIII.

Suor Caterina Capitani, suora delle Figlie della Ca­rità della provincia napolitana, cominciò ad accusare disturbi alla salute alcuni mesi dopo la vestizione. Era il 1962, la Suora aveva 18 anni e lavorava come infer­miera presso gli Ospedali Riuniti di Napoli. Fino a quel tempo la sua salute era stata molto buona. Un giorno avvertì un dolore intercostale noioso, al quale non die­de nessuna importanza. Dopo un paio di mesi però eb­be una emorragia e questa volta si spaventò. Era nella sua stanza. Ebbe un conato di vomito, corse al lavabo con la bocca piena di sangue molto rosso. Poiché le ave­vano insegnato che il sangue molto rosso proviene dal torace, pensò con terrore alla tisi. Con una simile ma­lattia la sua vita di suora sarebbe finita perché la rego­la della Congregazione delle Figlie della Carità esige che le aspiranti religiose siano sane per poter affrontare i sacrifici che il lavoro in ospedale richiede.

Suor Caterina per il momento decise di non dir niente a nessuno. Per alcune notti non riuscì a dormi­re, ma poi, vedendo che l'emorragia non si ripeteva e che il dolore intercostale era scomparso, riprese la vita di sempre.

Per sette mesi non accadde più niente. Poi all'im­provviso, senza alcun sintomo preventivo, ecco un'altra terribile emorragia che lasciò la suora molto spossata.

Cominciarono visite, controlli, esami clinici. Furo­no fatte radiografie del torace, dello stomaco, stratigra­fie. Nessuno riusciva a trovare il perché di quelle emorragie.

Nel 1964 i medici degli Ospedali Riuniti si dichia­rarono vinti e Suor Caterina passò all'Ospedale «Asca­lesi» sotto le cure del professor Alfonso DAvino.

Una eso fagoscopia rivelò una zona emorragica nel segmento toracico: sembrava che tutti i malanni pro­venissero da lì. Allora la Suora fu portata all'Ospedale Pellegrini dell'ematologo professor Giovanni Bile, ma anche egli non riuscì a migliorare la situazione. Restò un'ultima speranza: ricorrere al prof. Giuseppe Zanni­ni, direttore dell'Istituto di semeiotica chirurgica del­l'Università di Napoli, una personalità di spicco nel cam­po medico internazionale. Dopo una lunga visita e un'a­nalisi minuziosa di tutti i referti degli altri medici, il professor Zannini iniziò una nuova cura che durò cin­que mesi. Anche questa volta però la situazione non cambiò, per cui il professore decise di sottoporre la Suo­ra a un intervento chirurgico.

Suor Caterina fu ricoverata nella Clinica Mediter­ranea e tre giorni dopo venne operata. L'intervento du­rò cinque ore. Lo stomaco, all'interno, era completamen­te ricoperto di varici. Una forma ulcerosa strana e rara, provocata forse da un cattivo funzionamento della mil­za e del pancreas che risultavano in pessime condizioni. Il professore fu costretto ad asportarle lo stomaco, la mil­za e il pancreas. Si trattò di un intervento molto delica­to e le probabilità che la Suora uscisse viva dalla sala operatoria erano minime. Il pericolo sembrava supera­to. Le consorelle di Suor Caterina, senza perdere la fidu­cia, continuavano a pregare con fervore Papa Giovanni.

Nei giorni seguenti l'operazione lo stato di salute della Suora andò peggiorando. Durante la prima notte ebbe un collasso, poi un blocco intestinale la gonfiò co­me una botte. Il professore, molto preoccupato, pensa­va che fosse necessario un altro intervento. Ma dopo no­ve giorni le condizioni della Suora migliorarono all'im­provviso, ma fu un miglioramento illusorio.

Tre giorni dopo, mentre la Suora stava sorseggian­do un po' di liquido ed ecco che divenne cianotica e per­se i sensi. Accorsero i medici con l'ossigeno. La visita­rono riscontrandole la pleurite. In seguito alle cure ap­propriate ci fu un miglioramento e dopo dieci giorni fu in grado di uscire dalla clinica.

Ancora una volta però il miglioramento fu brevis­simo: dopo due settimane cominciò a peggiorare. Suor Caterina vomitava succhi gastrici in grande quantità.

Erano così forti che le bruciavano la pelle. Dopo alcuni giorni aveva la parte inferiore della faccia ridotta a una piaga e poiché non riusciva a ingerire niente, veniva nu­trita con flebloclisi. Il professore Zannini, sempre più preoccupato, decise di mandarla a casa, a Potenza, per provare se l'aria nativa potesse giovarle. Ma dopo due mesi la Suora ritornò a Napoli peggiore di quando era partita. Sembrava un cadavere.

Il 14 maggio 1966, dopo una breve crisi di vomito, si era aperto sullo stomaco un buco dal quale uscivano succhi gastrici, sangue e quel poco di succo d'arancia che la Suora aveva bevuto poco prima. Si era formata una perforazione che aveva causata una fistola ester­na. Era in atto una peritonite diffusa. La febbre era sa­lita a 40. La situazione era disperata. Il professor Zan­nini la fece ricoverare immediatamente all'Ospedale del­la Marina. Le ordinò delle medicine in attesa dello svi­luppo della crisi, perché un intervento chirurgico in quelle condizioni era impensabile.

Essendo in pericolo di morte, fu concesso alla Suo­ra di emettere i voti anzitempo e dopo le fu amministra­to l'Olio degli Infermi.

Nel frattempo una consorella le portò da Roma una reliquia di Papa Giovanni, che Suor Caterina mise sul­la perforazione dello stomaco e pregava il Papa di por­tarla con lui in Paradiso. La fine si avvicinava.

Il 25 maggio verso le 14,30 Suor Caterina si assopì. A un certo punto sentì una mano che le premeva la fe­rita sullo stomaco e una voce d'uomo che la chiamava. La Suora pensò che fosse il professor Zannini che ogni tanto veniva a controllare le sue condizioni. Suor Cate­rina si girò verso la parte da cui veniva la voce e vide, accanto al suo letto, Papa Giovanni. Era lui che teneva la mano sulla ferita dello stomaco. Papa Giovanni le di­ce: Non temere, non hai più niente. Suona il campanel­lo, chiama le suore che stanno in cappella, fatti misu­rare la febbre e vedrai che la temperatura non arriverà neppure a 37 gradi.

Mangia tutto quello che vuoi, come prima della ma­lattia. Non avrai più niente. Va dal professore, fatti vi­sitare, fa'delle radiografie e fai mettere tutto per iscrit­to, perché un giorno queste cose serviranno.

La visione scomparve e solo allora mi resi conto che non era stato un sogno. Suor Caterina si sentiva bene, non aveva più alcun dolore. Suona il campanel­

lo, le suore accorrono. La madre superiora pensò su­bito che la suora fosse in preda al delirio che precede la morte.

Trovarono la Suora seduta a metà letto. La guar­davano trasognate. Suor Caterina, non potendo conte­nere la gioia, quasi gridando disse: Sono guarita. È sta­to Papa Giovanni. Misuratemi la febbre, vedrete che non ho più nulla. La febbre arrivò a 36,8. Ora datemi da man­giare perché ho fame.

La febbre arrivò a 36,8. Con grande voracità ingoiò semolino, polpette, una minestrina, anche un gelato. Era guarita completamente. Della fistola nessuna traccia: la pelle era liscia, pulita e bianca. Allora Suor Caterina raccontò alle sue consorelle l'apparizione di Papa Giovanni.

Da quel giorno Suor Caterina non ha avuto più niente. I medici la visitarono, la sottoposero a decine di radiografie. Dei suoi malanni non c'era più nessuna traccia.

Il giorno dopo il miracolo la suora riprese una vita normale. Sono trascorsi più di 27 anni e ella sta be­nissimo.

Il testimonio più prezioso del miracolo è il profes­sor Zannini, il quale afferma: La guarigione di Suor Ca­terina è un caso di cui non trovo spiegazione nella scien­za medica. Ho operato io l'ammalata, le ho asportato quasi tutto lo stomaco perché affetto da una gastrite ul­cerosa emorragica gravissima. Le lasciai poco più di un centimetro di stomaco. Le asportai anche la milza. Ci fu una convalescebnza difficile, l'ammalata non pote­va nutrirsi. Poi si aprì la fistola, ci fu fuoriuscita di li­quido, peritonite, febbre altissima, stato ansioso grave, condizioni disperate.

Non era possibile intervenire con una nuova ope­razione. Feci delle prove: tutto quello che l'ammalata beveva usciva dalla fistola. Consigliai trasfusioni, pla­sma, antibiotici, più che altro come terapia d'attesa. Non ebbi successo: la fistola s'ingrandì e le condizioni del­l'ammalata peggiorarono. Avevo pensato di far traspor­tare Suor Caterina alle sezione rianimazione degli Ospe­dali Riuniti di Napoli per fare un ultimo tentativo. In­vece ricevetti una telefonata in cui mi diceva che la Suo­ra era migliorata. Andai a trovarla e con mia somma sopresa la trovai perfettamente guarita. Per il momento non venni informato di quello che era realmente ac­caduto. Continuai il mio lavoro di medico sottoponen­do l'ammalata ad esami radiografici, visite, ecc. Nessu­na traccia di malattia. Solo venti giorni dopo la supe­riora m'informò dell'apparizione di Papa Giovanni.

Affermo che non ho mai visto una cosa del genere, né posso immaginare come ciò sia potuto accadere. Non trovo modo di spiegare scientificamente quello che è ac­caduto.

Sono un medico e ho seguito il caso con la freddez­za del medico. Sono stato anche più pignolo e scrupo­loso dopo che mi hanno raccontato dell'apparizione di Papa Giovanni.

Sono pienamente convinto che si tratta di una gua­rigione assolutamente inspiegabile, al di fuori delle leggi fisiologiche e dell'esperienza umana. Il fatto che resi­sta da tanti anni, senza ricadute, la rende ancora più inspiegabile e insieme importante.

(Da « Un uomo mandato da Dio - Biografia di Giovanni XXIII» di Renzo Allegri - Editrice Ancora Milano).

Chi è venuto dall'aldilà?

Il Venerabile P. Domenico di Gesù Maria (+1630) era solito tenere nella sua cella, come si usa nell'Ordi­ne Carmelitano, un teschio vero, sia per ricordare la morte come per avere un richiamo al dovere di carità di suffragi verso i defunti.

Quando arrivò al convento di Roma, nella cella che gli venne assegnata trovò un teschio, da cui una notte udì una voce alta e spaventevole che gridava: «In me­moria hominum non sum - nessuno si ricorda di me». Le parole furono ripetute più volte e udite in tutto il dormitorio del convento. Il Venerabile rimase stupito e timoroso, dubitando che si trattasse di un fenome­no diabolico. Si mise subito a pregare per sapere cosa dovesse fare. Prese poi dell'acqua benedetta e aspergen­dola sopra il teschio, il medesimo pronunciò queste al­tre parole: «Acqua, Acqua, misericordia, misericordia».

Il religioso gli domandò chi era e che misericordia voleva. Il defunto rispose dandogli queste informazio­ni: era un tedesco, venuto a Roma a visitare i Luoghi Santi. Il suo corpo era stato sotterrato da molto tempo nel camposanto, l'anima si trovava in Purgatorio a pa­tire pene intollerabili. Non aveva nessuno che gli faces­se del bene, né chi si ricordasse di lui, e perciò lo prega­va di aspergerlo continuamente con l'acqua benedetta. Gli raccomandò che pregasse per lui il Signore affinché lo liberasse da quelle pene.

Padre Domenico promise. Pregò molto e fece peni­tenze. Pochi giorni dopo il defunto gli comparve in cel­la per ringraziarlo del beneficio della liberazione dal Purgatorio, promettendogli riconoscenza.

(Dai processi di beatificazione del P. Domenico di Gesù Maria)

Chi è venuto dall'aldilà?

A Roma, nel 1873, alcuni giorni prima della festa dell'Assunzione, in una di quelle case, dette di tolleran­za, accadde che si ferisse alla mano una di quelle scia­gurate giovani. Il male, che in sulle prime fu giudicato leggero, inaspettatamente si aggravò tanto che la mise­ra, trasportata all'ospedale, morì nella notte.

Nello stesso istante una delle sue compagne, che non poteva sapere ciò che avveniva nell'ospedale, cominciò a gridare disperatamente, così che svegliò gli abitanti del quartiere, mettendo lo sgomento fra quelle miserabili in­quiline e provocando l'intervento della questura.

La compagna morta nell'ospedale le era apparsa, circondata di fiamme, e le aveva detto: Io sono danna­ta e se tu non lo vuoi essere, esci subito da questo luogo d'infamia e ritorna a Dio!

Nulla potè calmare l'agitazione di questa giovane, la quale, appena spuntata l'alba, se ne andò via, lascian­do tutta la casa nello stupore, specialmente allorché si seppe della morte della compagna nell'ospedale.

Stando così le cose, la padrona del luogo infame, che era una garibaldina esaltata, si ammalò gravemen­te e, pensano all'apparizione della dannata, si conver­tì e volle un Sacerdote per ricevere i Santi Sacramenti. L'autorità ecclesiastica incaricò un degno Sacerdote, Monsignor Sirolli, Parroco di San Salvatore in Lauro, il quale richiese all'inferma, alla presenza di più testi­moni, la ritrattazione delle sue bestemmie contro il Sommo Pontefice e la dichiarazione di cessare dall'in­fame industria che esercitava. La donna morì con i Con­forti Religiosi.

Tutta Roma conobbe ben presto i particolari di que­sto fatto. I cattivi, come sempre, si burlarono dell'acca­duto; i buoni invece ne approfittarono per divenire mi­gliori.

Chi è venuto dall'aldilà?

Nell'anno 1863 fu ricoverata all'ospedale del Cotto­legno la sessantenne israelita Sara Pescarolo. Un Sacer­dote la visitò più volte e fece pregare il Servo di Dio P. Giuseppe Cottolengo (+1842) affinché avesse la grazia del Battesimo. Di questo Sacramento egli parlava va­gamente all'inferma. Ella rispondeva: Adesso no. - Ve­dendola in pericolo di morte «mi feci a parlare schiet­tamente e apertamente sulla necessità del Battesimo per salvarsi - racconta il teste Don Domenico Bosso - e da una parola che proferì mi parve che fosse disposta a riceverlo, per cui mi accinsi ad amministrarglielo, ma essa si alzò dal capezzale furibonda, respingendomi con le mani e dimostrando nel modo più energico la sua vo­lontà contraria. Le feci notare che se io mi ero accinto ad amministrarle il Battesimo, fu perché credevo che fosse disposta a riceverlo, ma vedendo che la cosa non era così, le disse che stesse pure tranquilla che io non glielo amministravo, poiché la religione stessa ci vieta di conferire il Battesimo a chi non lo vuole ricevere, e che mai io avrei usato violenza». Don Bosso si ritirò a pregare. «Dissi con confidenza queste precise parole: "Padre Cottolengo, se siete in Cielo, come lo credo fer­mamente, e se il processo canonico che deve iniziarsi di qui a qualche giorno è di gloria di Dio, e dovrà quin­di avere un buon esito, datemi un segno. Il segno che vi domando è la conversione di quella israelita, ma fa­te in modo che non sia più io a presentarmi a lei per persuaderla a farsi battezzare, ma lei stessa mi faccia chiamare e mi preghi a volerla battezzare!". Con mio stupore l'inferma non solo non morì in quella notte, ma ebbe un piccolo miglioramento...».

L'indomani (sabato) il medesimo Sacerdote fu av­visato che la Pescarolo per ben tre volte l'aveva chia­mato, che voleva parlarli e che voleva essere battezza­ta quella sera stessa. L’ ammalata manifestava a Don Bosso che desiderava sinceramente di essere battezza­ta. Il Sacerdote volle che dichiarasse questa sua volon­tà davanti a due testimoni. Accondiscese e così fu fatto. La domenica successiva, dopo nuova interrogazione alla presenza di tre altri testimoni, fu battezzata, dimostran­dosi tutta contenta. Otto giorni dopo, davanti al rabbi­no, dichiarava fermamente: «Sì, sono io che ho voluto farmi cristiana e nessuno mi ha costretta».

(Dal processo per la beatificazione e canonizzazio­ne di Giuseppe B. Cottolengo).

Chi è venuto dall'aldilà?

(«Io sarò alle tue spalle a proteggerti») Rachelina Ambrosini, una ragazza di eccezionale bontà, moriva il 10 marzo 1941 a soli 15 anni e 8 mesi. Dopo la morte continuò a farsi viva. Ecco alcuni episodi. Umberto Mirra da Campanarello (Avellino), nel 1941 è alle armi, si ammala di polmonite e viene condotto all'ospedale di Salerno. Una notte gli appare Rachelina vestita tutta di bianco e gli dice: «Non aver paura, stai già bene e fra poco andrai a vedere la tua famiglia». La predizione si avverò pienamente. - Lo stesso anno il Mirra è trasferito dalla Sicilia all'alta Italia per prepa­rarsi ad andare in Russia. Una notte gli appare di nuo­vo Rachelina e gli dice: «Non aver paura, per te c'è chi ci pensa; parti contento; tornerai sano e salvo». In Rus­sia, nel 1942, sta per iniziarsi un'azione bellica e Um­berto è molto preoccupato. Rachelina gli appare la ter­za volta: «Perché sei così malinconico e hai tanta pau­ra? I Russi sono già andati via; tu e i tuoi compagni an­date senza timore. Già te lo dissi che tornerai a casa sa­no e salvo». E infatti - conclude la relazione - sono tornato a casa mia».

A Domenico Colantuoni, soldato a Cava dei Tirre­ni, e disperato perché deve partire per la Sicilia, la «san­tina», come egli la chiama, batte sulla spalla - mentre in pieno giorno si è addormentato - e gli dice: «A che pensi? Su, su, non preoccuparti che io sarò alle tue spal­le a proteggerti». Infatti invece che in Sicilia viene man­dato a Salerno. Qui per un po' le cose vanno bene, ma poi incominciano i bombardamenti e i pericoli.

Una notte, mentre dopo una delle solite incursio­ni, il Colantuoni prende un po' di sonno, torna Racheli­na. Altro che festa con quella musica! E lei a insistere: «Stai contento che io ti proteggo».

Di lì a un po' arriva il sergente e gli ordina di anda­re con altri a tagliare dei rami d'albero per mascherare un po' le tende. Colantuoni si alza e obbedisce. Mentre ritornano, ecco gli aeroplani nemici, i compagni cerca­no rifugio sotto un'altra ripa; Domenico, senza saper per­ché, rimane distaccato da loro e si arrangia come può. Cade una bomba: quelli che sono sotto la ripa vengono travolti, Colantuoni rimane completamente illeso -.

Antonio Villani narra, sotto vincolo di giuramen­to, il seguente episodio: «Nel 1942, trovandomi nello spaccio cooperativo del mio reggimento (4 carristi), udii un collega di armi raccontare quanto appresso. Trovan­domi accampato in località esposta alle offese del ne­mico, una notte, mentre riposava, gli appare una giovi­netta e gli dice di allontarsi da quel luogo perché vi sa­rebbero cadute delle bombe. Il soldato non dette impor­tanza e continuò a dormire. Una seconda volta compar­ve la fanciulla che gli ripeté con insistenza di allonta­narsi di lì e mettersi in salvo se non voleva rimanere ucciso. Il soldato, impressionato, avvertì i compagni, ma questi scoppiarono a ridere e lo motteggiarono, per cui anche egli, sebbene con l'animo turbato, rimase sotto la tenda con loro. Ed ecco che l'apparizione ritorna per la terza volta e gli dice: «Non vuoi proprio salvarti? Io ti confermo, che fra pochi minuti il campo sarà bom­bardato». Allora il sodato, sgomento, le domandò: «Ma tu chi sei?». L'apparizione rispose: «Sono Rachelina Am­brosini, figlia del Dott. Alberto». Il suo aspetto era di un angelo. Il soldato si alzò di scatto esclamando: «Chi mi vuol seguire, mi segua, e uscì dalla tenda seguito da altri due soldati. Gli altri rimasero. Ma non erano tra­scorsi che pochi minuti quando apparecchi nemici ro­vesciaraono sul campo proiettili d'ogni calibro seminan­dovi la distruzione e la morte» (I. Felici - Il volo di un Angelo - Ediz. Paoline).



Chi è venuto dall'aldilà?

San Leopoldo Mandic è il famoso Cappuccino con­fessore a Padova, morto nel 1942. Le sue apparizioni do­po morte, numerose e ben documentate, costituiscono (come quelle degli altri santi) altrettanti indizi della so­pravvivenza. Le guarigioni istantanee di malattie orga­niche seguite in parecchi casi alle apparizioni indicano che non si tratta di allucinazioni. Ecco il racconto di una pe rsona guarita.

Il fatto che, in certe apparizioni, il Santo sia stato creduto persona corporea vivente in questo mondo, che sia stato toccato, che abbia portato oggetti fisici, fa pen­sare ad un corpo parasomatico. Ecco il caso di Teresa Pezzo:

«Ero da molto tempo affeta da gravi disturbi al fe­gato. Si tentarono varie cure, ma tutto inutilmente, tan­to che il 22 ottobre 1946, nonostante il persistere della febbre, venni sottoposta a gravissimo intervento chirur­gico di oltre tre ore. Dopo parecchi giorni passati tra la vita e la morte, mi ripresi alquanto e andai a Bovolone presso lo zio Arciprete, monsignor Bartolomeo Pezzo. Per un po' di giorni tutto andò bene, ma il 4 dicembre dovetti rimettermi a letto perché mi ritornarono fortis­simi i dolori, la febbre risalì oltre i 40, ricominciò il vo­mito quasi continuo, tanto che non potevo ritenere nem­meno una goccia d'acqua. Si aggiunse un gonfiore du­ro e voluminoso al di sopra del taglio dell'operazione; i dolori continui e acutissimi si estendevano alla gam­ba e al braccio destro. Divenni così debole che non potevo quasi più parlare. Il medico curante dichiarò che si era ritornati allo stato di prima dell'operazione e for­se peggio.

Dietro esortazione di un padre cappuccino, di pas­saggio da Bovolone, il giorno 8, domenica, cominciai la novena di Padre Leopoldo e posi una sua reliquia sulla parte ammalata. Martedì notte, mi addormentai alle 11.30. Sonava mezzanotte quando all'improvviso mi ap­parve Padre Leopoldo. Era identico alla sua immagine, ma senza stola e molto più bello. La stanza, quantun­que la luce fosse spenta, era illuminata a giorno. Il Pa­dre si avanzò sino quasi al mio letto. Tra noi due av­venne il dialogo seguente:

"Mamma! Mamma!" gridai io tra gioia e lo spavento.

"Non aver paura!" disse Padre Leopoldo. "Tu ti ac­costi tutte le mattine alla santa comunione a letto, non è vero?".

"Sì, Padre".

"Domani" continuò Padre Leopoldo mettendomi una mano sulla spalla "alle 8 vai in chiesa, ascolta la santa messa e fai la comunione, perché sei guarita. E ogni giorno dovrai recitare una corona di Gloria Patri. Questo per tutta la vita".

"Sì, Padre, anche due!".

"Brava! Tu hai sofferto molto nella tua vita, specie in questo ultimo periodo, ma questo, cara, lo troverai nella eternità! Tu devi sempre fare del bene al mondo e, se ti giungerà qualche brutto momento, dolori e ma­lattie, sopporta tutto con rassegnazione e soffri tutto per amore di Dio" .

"Padre, che grazia!".

"Quando termini la novena?". "Lunedì ".

"Allora tornerò lunedì a mezzanotte perché ho mol­te cose da dirti. Intanto ti dò la benedizione".

«Mi benedisse e scomparve dicendo: "Sia lodato Ge­sù Cristo!" ».

«Scomparso Padre Leopoldo, mi scossi. Credevo di aver sognato, ma mi trovai perfettamente guarita. Non più dolori al fegato, scomparso il gonfiore, i dolori alla gamba e al braccio, cessata la febbre.

La zia, che dormiva in camera con me, aveva senti­to tutte le parole mie, ma non quelle di Padre Leopol­do, e non aveva visto nulla.

La mattina mi alzai, scesi frettolosa le scale, men­tre il giorno prima non potevo nemmeno reggermi in piedi, andai in chiesa alla Messa delle 8, feci la santa comunione, rimasi a lungo in preghiera e poi, ritorna­ta in canonica, mangiai con un appetito formidabile sen­za sentire alcun disturbo. Ero perfettamente guarita.

Il fatto suscitò nel paese una grande impressione, perché a tutti era nota la mia dolorosa condizione, e si accese una vivissima attesa della nuova apparizione pro­messa. Gran numero di persone m'incaricarono di pre­sentare a Padre Leopoldo domande su diverse cose. Alla mezzanotte tra il 16 e il 17 dicembre, Padre Leo­poldo mi comparve di nuovo, circonfuso di luce, in mo­do da illuminare la stanza a giorno. Mi parlò di molte cose riguardanti la mia vita spirituale e mi raccoman­dò in modo particolare di pregare. Poi rispose alle do­mande che gli presentavo. Io scrivevo le risposte man mano che Padre Leopoldo parlava, e le scrivevo alla lu­ce della visione perché la lampada era spenta. La zia che dormiva nella stessa camera e un sacerdote fuori dalla porta udivano le mie parole, ma non vedevno nulla e non sentivano le parole del Padre. Appena questi scom­parve, io accesi la lampada esclamando: "Che bellezza!

Che bellezza!': Tenevo in mano il foglio che avevo scrit­to sotto dettatura di Padre Leopoldo, con la penna for­nitami dallo stesso Padre.

Mia zia mi disse poi che durante la visione cera per lei nella stanza buio perfetto, mi aveva sentito far scor­rere velocemente la penna sulla carta, ma che quando Padre Leopoldo scomparve e si accese la lampada, essa vide in mano mia il foglio scritto, ma non la penna con cui l'avevo scritto.

Rileggendo le risposte di quel foglio, rilevai una co­sa molto importante: Padre Leopoldo si lamenta quasi con tutti che pregano poco e male, e insiste con tutti che preghino di più se vogliono che Dio li benedica». Valdi­porro (Verona), 28 dicembre 1946: Teresa Pezzo.



Chi è venuto dall'aldilà?

Una sera afosa di luglio, uno dei più noti professio­nisti di Milano, l'istologo A.P. (si tace il nome per vo­lontà del protagonista della vicenda) lasciò la clinica per recarsi nel suo studio. Qui visitò un'ammalata, e men­tre stava stendendo una breve relazione, entrò l'infer­miera dicendo con voce strana: Professore, c'è di là una bambina. -Andò in anticamera a vedere. «In piedi, con­tro la porta d'ingresso - narra il professore - c'era una bambina di dieci anni circa, magrolina, pallida d'un pal­lore quasi mortale e nel cui volto brillavano due occhi immensi, febbrili che si guardavano fissi. Un abitino a fiori di percalle, e due treccine brune ornate da due no­dini rossi, ma d'un rosso tanto vivo da dare fastidio. Le chiesi: "Che vuoi piccola? sei sola?..."

Mi guardò fissamente, poi con una voce del tutto imprevista, opaca, disse: - la mamma è tanto malata ! - E... dov'è la tua mamma? - In via Pioppette. - Non so perché rispondo: Vengo subito -.

Vado in studio, depongo il camice e torno in anti­camera. La bambina non c'era più. Chiedo: Dov'è an­data? - È uscita, dice l'infermiera.

Spinto da una oscura urgenza mi precipito sul pia­nerottolo. Nulla. Scomparsa. Rimango un attimo perples­so, poi un'ansia sempre più mi pervade, afferro la bor­sa, scendo, salto in macchina e vado in via Pioppette, nel quartiere più antico di Milano: Porta Ticinese. Ma lì giun­to mi accorgo che non conosco il nome della donna né il numero di casa... Come seguendo un richiamo mi infi­lo in un portone. C'è uno stambugio con una vecchia che accarezza un gatto. Chiedo se per caso nella casa c'è una donna ammalata che ha una bambina così e così. Vedo la vecchia sbarrare gli occhi e dire che sì, è la Caterina Terrani e abita al secondo piano. Salgo le scale e mi tro­vo davanti a una porta socchiusa. Non so perché, entro... Su un letto c'è una donna di una magrezza spaventosa, che ad un primo sguardo pare morta. Mi accosto, respi­ra, ma il polso è quasi nullo e il cuore batte tanto debol­mente da denunciare uno stato preagonico. Non mi per­do in congetture, faccio subito un'iniezione di adrenali­na, poi mi siedo, in attesa... Della bambina nessuna trac­cia. Guardo la donna e scopro su quel volto terreo, già bagnato dal freddo sudore dell'agonia, una parvenza di colore; vedo le palpebre vibrare, la bocca dischiudersi, la testa girare come in cerca di respiro. Mi accosto. Il pol­so ha ripreso un poco, il cuore batte più regolarmente. Provoco con breve massaggio una ripresa cardiaca.

Dopo un po' quella donna quasi morta apre gli oc­chi e mi guarda stupita. Dice con la voce appannata: Ma lei chi è? - Sono il dottore... - Sbarra gli occhi e ri­prende: Il dottore? Ma... chi le ha detto di venire qui? Sa, dottore, io sono in questo letto da ieri pomeriggio... - Aggiungo: È venuta da me una bella bambina con due treccine e un vestito a fiori, e... -

La donna spalanca la bocca, si alza sui gomiti, mi guarda con gli occhi sbarrati, atterriti... M'afferra un braccio, lo stringe, parla spasmodicamente: Lo sapevo, lo sapevo! Ho tanto pregato la Madonna che non mi fa­cesse morire senza prima aver portato la mia Marina al cimitero... Dottore venga, venga di là. -

Non so come trova la forza di alzarsi e mi trascina a una tenda... Al di là della tenda c'è una stanzetta pic­cola, immersa in un'ombra cupa, appena rischiarata da una candela. Su un misero giaciglio è stesa, nella im­mobilità della morte, una bambina dall'apparente età di dieci anni, dalle treccine brune ornate da due nastri rossi... Mi chino per guardarla bene. È lei, la bimba che è venuta nel mio studio. La guardo senza essere nem­meno spaventato; mi sento schiacciato dal senso oscu­ro del mistero. Avverto il mormorìo della madre: Ma­donna santa, grazie per aver ascoltato le mie parole. La mia bimba mi ha salvato. Io non so come ciò sia avve­nuto. - Poi si volge a me e dice: Dottore, quando ieri è morta la mia Marina, io ho avuto un colpo al cuore e, dopo averla composta, sono caduta su quel letto. Ca­pivo che stavo morendo e mi disperavo, sola com'ero, per non poter fare ciò che era necessario per la mia bam­bina. E pensavo: O se la mia Marina fosse viva in que­sto momento. Adesso lei, dottore, è qui e... - S'inginoc­chia, si raggomitola e comincia a piangere tutte le la­crime del suo disperato dolore e della sua gioia incon­cepibile.

Sono passati parecchi anni. Caterina Terrani, an­cora vivente, è terziaria presso un convento alla perife­ria di Milano. Per quanto riguarda una spiegazione al fatto, io dico che si tratta di un autentico miracolo... - (Da «Raggio di sole», Luglio-Agosto 1967, dell'Unio­ne Cattolica Ammalati).



Chi è venuto dall'aldilà?

Il mattino di giovedì, 2 aprile 1985, moriva a Ro­ma, nel Convento dei Frati Minori in Via Merulana, Pa­dre Emanuele Chiettini, Frate di santa vita.

Alle 10 di quel giorno egli è atteso invano al suo con­fessionale. Viene ricercato, non si trova. Si telefona al Monastero delle Clarisse di Via in Selci, dove da 38 an­ni era solito celebrare la S. Messa di buon mattino. Si risponde che anche quel giorno il Padre Emanuele ave­va già celebrato il Sacrificio Eucaristico e poi era an­dato via.

Dopo diligente ricerca, Padre Chiettini viene trovato morto in un recondito angolo di un corridoietto pochis­simo frequentato, chiamato «delle botteghe oscure».

L'indomani va a celebrare la S. Messa, al posto del defunto, il Padre Alessio Benigar che trova le Suore ad­dolorate per l'improvvisa scomparsa di P. Chiettini.

Dopo la celebrazione della Messa, Suor Celina, Ab­badessa del Monastero, riferisce al Padre Alessio che cir­ca le 9.15 del giorno precedente, mentre si trovava nel­la sua cella, fu colpita come da un lampo improvviso, quasi un flash fotografico, accompagnato da un lieve scatto. Alla sua richiesta del significato di quel segno, Padre Alessio disse a lei e alle Suore: «Non piangete, non siate tristi! Padre Emanuele è vivo, è felice! L'ho visto io tutto luminoso con questi miei occhi, così come ora vedo voi. Non ho mai visto nulla di simile in vita mia! Mi ha detto: "Sono felice!" ».

Padre Emanuele Chiettini era già in Paradiso. (Dall'Osservatore Romano del 4 maggio 1985).



Chi è venuto dall'aldilà?

(«Sono N. N... Se non mi avessero ucciso»)

«In un paesello dell'Italia centrale viveva la fami­glia "Berardi" benestante, dedita ai lavori dei campi e di sentimenti profondamente cristiani. Una figlia, che chiamerò Marcella, era cresciuta sana ed esuberante di vita. A tredici anni per la prima volta avvertì un males­sere misterioso, che tale le rimarrà per ben dieci anni...».

Così Mons. Corrado Balducci inizia il racconto di un caso di possessione diabolica, nelle sue varie vicen­de e tentativi di esorcismo, nel libro «La possessione dia­bolica - Ediz. Mediterranea, Roma». Questo racconto fu pubblicato nella rivista «Famiglia mese, n. 4,1975», dal­la quale se ne riporta un tratto.

Nella povera donna si erano insediati dieci spiriti. In seguito ai diversi esorcismi, nove di essi furono cac­ciati. L'ultimo spirito aveva dichiarato: «Io sono forte e potente; io non uscirò!».

Più volte il Sacerdote aveva scongiurato lo spirito a manifestare il suo nome, ma si rifiutava sempre. Un pomeriggio, nella chiesa gremita di gente, durante le preghiere di rito l'esorcista chiese: Dimmi, chi sei? - Tra lo spavento e il terrore dei presenti, si udì un grido: Sono NN - e pronunziò il nome di un uomo conosciu­tissimo in paese, vittima qualche anno prima di un at­tentato (lo chiamerò Pallante).

La stessa sera a tarda ora il Parroco, mentre esor­cizzava privatamente in casa Berardi, interrogò così: «Dì, mi conosci? - E lo spirito: Mi hai portato al cimi­tero; tu quella notte pregasti per me e per la mia fami­glia: ormai però le tue preghiere erano inutili... io ero dannato.

In altra circostanza Pallante parlò così al Sacerdo­te: Se non mi avessero ucciso così presto, tu forse mi avresti convertito! Ti prego, porta via quella croce po­sta sul luogo del delitto, e passando di lì non dire più quelle preghiere, mi dai pena. Ho fatto questa fine per­ché ho ricevuto fin da bambino una cattiva educazio­ne. Prega per mia sorella (la fattucchiera) che non ven­ga in questi luoghi di tormento. Certo dovrei uscire da questa ragazza, perché i miei hanno ricevuto del bene dalla sua famiglia: l'anno scorso mia moglie è venuta qui a raccogliere le ulive (tutto rispondeva a verità).

E ancora: Povera figlia mia; quando saprà che so­no io, quanto dovrà soffrire. Questa notte si è svegliata, ha preso la mia fotografia, piangendo mi ha baciato e mi ha detto: Papà, papà, se sei tu, esci da quella ragaz­za perché qui tutti mi dileggiano.

Se dunque - interruppe l'esorcista - tu ci hai co­nosciuto, se tante volte siamo stati insieme, perché non ci fai del bene? Lascia in pace questa ragazza.

Da parte mia - riprese lo spirito - sarei pronto a farti del bene... ma non posso - e qui lo spirito, per­dendo per un istante la sua abituale asprezza, con voce pacata continuò - Pensa: anima dannata vuol dire dia­volo, e diavolo portare al male!

Un altro giorno l'esorcista, nella chiesa sempre gre­mita di gente, interrogò lo spirito: Si soffre all'Inferno? C'è il fuoco?

L'ossessa che balzando indietro dette in un gran so­spiro e disse: Pensa, una goccia di quel fuoco sarebbe sufficiente per incenerire ciquemila persone!

- Ma Dio che ti ha condannato è ingiusto? - No, è giusto.



Chi è venuto dall'aldilà?

È noto il rigore dei Processi di Canonizzazione. La Chiesa, prima di elevare qualcuno agli onori degli alta­ri e dichiararlo Santo, esamina la sua vita e specialmen­te i fatti rilevanti. Il seguente episodio, scrupolosamen­te autentico, fu inserito nei Processi di Canonizzazione di San Francesco di Girolamo, celebre missionario del­la Compagnia di Gesù, vissuto nel secolo scorso.

Un giorno questo Sacerdote predicava a una gran folla in una piazza di Napoli. Una donna di cattivi co­stumi, di nome Caterina, abitante in quella piazza, per distrarre l'uditorio durante la predica, si diede a fare schiamazzi e cenni inverecondi dalla finestra.

Il Santo dovette interrompere la predica, perché la donna non la smetteva più. Fu inutile ogni protesta. Il giorno seguente il Santo ritornò a predicare sul­la stessa piazza e, vedendo chiusa la finestra della don­na disturbatrice, domandò cosa fosse capitato.

Gli fu risposto: È morta questa notte improvvi­samente.

La mano di Dio l'aveva colpita. - Andiamo a ve­derla! - disse il Santo.

Accompagnato da altri, entrò nella camera dell'in­felice e vide il cadavere disteso. Il Signore suole glorifi­care i suoi Santi con i miracoli e ispirò al suo fedele Ser­vo di richiamare a vita la defunta.

San Francesco di Girolamo guardò con orrore il ca­davere e poi con voce solenne esclamò: Caterina, in no­me di Dio, alla presenza di costoro, dite dove siete! - Per virtù di Dio, si aprirono gli occhi del cadavere, le sue labbra si mossero convulse: Nell'Inferno... Io sono per sempre nell'Inferno! –



Chi è venuto dall'aldilà?

Viveva a Londra, nel 1848, una vedova di ventino­ve anni, molto ricca e assai mondana. Tra i damerini che frequentavano la sua casa, si notava un giovane Lord, di condotta poco edificante.

Una notte, verso le dodici, la donna stava a letto leg­gendo un romanzo per conciliare il sonno. Appena spen­ta la candela per addormentarsi, si accorse che una stra­na luce, proveniente dalla porta, si diffondeva nella ca­mera, crescendo sempre più. Meravigliata, spalancò gli occhi non sapendo spiegarsi il fenomeno. La porta del­la camera si aprì lentamente ed apparve il giovane Lord, complice dei suoi disordini.

Prima che essa potesse proferire parola, il giovane le fu vicino, l'afferrò al polso e disse in inglese: «C'è un Inferno, dove si brucia!».

Il dolore che la poveretta sentì al polso fu tale che svenne. Rinvenuta mezz'ora dopo, chiamò la camerie­ra, la quale entrando nella stanza sentì un forte puzzo di bruciato. La cameriera constatò che la padrona ave­va al polso una scottatura così profonda da lasciar ve­dere l'osso, avente la superficie di una mano di uomo. Osservò ancora che dalla porta il tappeto aveva le im­pronte di passi d'uomo e che ne era bruciato il tessuto da una parte all'altra.

Il giorno seguente la signora seppe che la stessa not­te il giovane Lord era morto.

L'episodio è narrato da mons. Gastone De Sègur nel suo opuscolo sull'Inferno, il quale così chiude il suo di­re: Non so se quella donna si sia convertita, ma so che vive ancora. Per coprire agli sguardi altrui le tracce della sua scottatura, porta al polso sinistro, in forma di brac­cialetto, una larga fascia d'oro, che non depone né gior­no né notte, per cui viene chiamata «la signora del brac­cialetto».



Chi è venuto dall'aldilà?

(Vi è un Inferno e io vi sono dentro)

Il dotto e pio Mons. Gastone di Segur, nel suo noto opuscolo sull'Inferno, narra un episodio straordinario accaduto a Mosca poco prima dell'orribile campagna bellica del 1812.

- «Mio nonno materno, il conte Roctopchine, go­vernatore militare di quella città, era in stretta relazione col generale conte Orloff, celebre per il suo valore, non meno che per la sua empietà. Una sera dopo cena, il conte Orloff e un suo amico, il generale V..., volter­riano al pari di lui, si burlavano volgarmente della reli­gione e soprattutto dell'Inferno.

- Ma pure - disse Orloff - e se vi fosse poi qual­cosa al di là della tomba?

- Ebbene - riprese il generale..., - qualora così fosse, quello di noi due che morirà per primo verrà ad avvisare l'altro. Restiamo d'accordo?

- Benissimo - rispose Orloff...

Alcune settimane dopo scoppiò una terribile guer­ra, una di quelle tanto temute, quali Napoleone sapeva allora suscitare. L'esercito russo fu chiamato alle armi, e il gen. V..., ricevette l'ordine di partire immediatamen­te per prendervi una posizione importante. Erano tra­scorse due o tre settimane da che egli aveva lasciato Mo­sca, quando un mattino assai per tempo, mentre mio nonno stava alla toeletta, si vide all'improvviso aprire bruscamente la porta della stanza ed entrarvi il conte Orloff, in veste da camera, con i capelli irti, gli occhi stralunati, pallido come un cencio.

- Ecchè, Orloff ? Voi qui a quest'ora? In questa ma­niera? Che avete? Che cosa vi è accaduto?

- Mio caro - risponde Orloff - io credo d'impaz­zire: ho veduto il gen. V...

- Il gen. V...? E dunque arrivato?

- Oh no! - rispose Orloff gettandosi sopra un di­vano e prendendosi violentemente la testa fra le mani. - No, no, non è ritornato, ed è appunto questo che mi spaventa.

Mio nonno non capiva nulla e procurava di calmarlo.

- Raccontatemi dunque - disse - ciò che vi è ca­pitato e che cosa significhi questo.

Allora sforzandosi di dominare la sua emozione, il conte Orloff racconta quanto segue: «Mio caro Roctop­chine, non è trascorso ancora molto tempo da quando il gen. V... e io ci siamo giurati a vicenda che il primo che fosse morto di noi due, sarebbe venuto a dire all'al­tro se vi sia qualche cosa al di là della tomba. Ora que­sta mattina, mentre me ne stavo tranquillamente a let­to, desto da lungo tempo, senza pensare affatto a lui, sento aprirsi le cortine del letto e mi vedo dinanzi, a due passi, il gen. V., diritto, pallido, con la destra al petto che mi dice: Vi è un Inferno e io ci sono dentro... Dopo di che scomparve. Sull'istante sono corso da voi: io per­do la testa.

Mio nonno prese a calmarlo come meglio poté, ma non fu facile; cercò di convincerlo di allucinazione, di fantasmi, tentò di fargli credere che forse dormiva..., che si danno talora casi straordinari che non si sanno spiegare...

Dieci o dodici giorni dopo, un messo dell'esercito annunziava a mio nonno, insieme alle altre notizie, la morte del gen. V... La mattina stessa di quel giorno me­morando in cui il conte Orloff lo aveva veduto e senti­to, all'ora stessa che egli era apparso in Mosca, l'infeli­ce generale, uscito a esplorare la posizione del nemico, era stato trapassato da una palla di fucile ed era cadu­to fulminato» (De Segur G. - L'En fer - Parigi 1876).» -



Chi è venuto dall'aldilà?

Giuseppina Berettoni, anima privilegiata morta a Roma nel 1927, fu pregata dalla Presidente del Circolo delle Donne Cattoliche Carlotta Marchi, vedova Conte­stabile), a far visita a un suo nipote gravemente amma­lato, ma purtroppo sprezzante di Dio e dei Sacramenti. Nel tardo pomeriggio del 31 maggio 1906 ella si presentò alla clinica e si trovò a colloquio con il Direttore, il quale con un sorriso canzonatorio le chiese: Lei deve es­sere una bizzoca che vuole convertirlo! Ma che? Non ci riuscirà, perché un tipo... - Poi cercò di licenziarla, ma essendo troppo tardi e non potendo ritornare a casa, Giuseppina si mostrò così persuasiva che il Direttore le concesse di rimanere, anzi le disse: «Veda, tutti i giorni io porto via questa chiave; ma ora la consegno a lei, co­sì, dopo la visita all'infermo, potrà passare qui la notte; potrà riposare su quella poltrona».

Partito il professore rimase sola e si mise a recitare il rosario, poi si presentò al malato. Con serie riflessio­ni e intercalando segrete preghiere a Dio in brevi inter­valli Giuseppina ottenne la conversione del giovane, il quale fece chiamare un Padre Cappuccino, si confessò e ricevette il Viatico e l'Estrema Unzione.

Ritiratasi nello studio del Direttore, Giuseppina si avvide che in angolo c'era uno scheletro umano, ritto, con tutte le sue ossa congiunte da fili metallici. Di chi sarà stato? E dove si troverà l'anima di costui? - si do­mandava. Ed ecco che all'improvviso quello scheletro riprende vita, si muove, parla e dice:

- Eccomi! Tu mi hai chiamato.

- Ma io non ti ho chiamato - risponde Giuseppi­na Berettoni, terrificata.

- Noi - riprende a dire lo scheletro - quantun­que dannati, dobbiamo fare la volontà di Dio. Sappi che da 74 anni io sono dannato all'Inferno. Questo domani lo dirai al Direttore.

- Egli non mi crederà, come glielo posso provare? - Vedrà che non sto nella posizione in cui ero. - Questo non basta.

- Ne avrai la prova - e così dicendo lo scheletro torna nell'angolo da dove si era mosso, mettendosi in posizione alquanto diversa.

Il giorno seguente il Direttore si diresse al suo stu­dio, desideroso di riprendere la conversazione.

- La scienza - disse a un certo punto - mi ha di­mostrato molte cose. Io non credo ai miracoli!

- Ciò mi stupisce, essendo lei così erudito - rispo­se Giuseppina - Sappia che io ho visto dei miracoli e che io stessa sono stata guarita all'istante da una piaga al braccio; di questo lei può accertarsi all'ospedale S. Giacomo.

- Allora è lei che ha fatto bizzoco il Direttore di quell'ospedale?

- Può darsi che io vi abbia contribuito - rispose Giuseppina - Ma ora guardi là, - disse puntando il dito verso l'angolo - quello scheletro appartiene a uno che da 74 anni sta all'Inferno.

- Adesso lei vuole tenermi una seduta di spi­ritismo.

- Io non fo dello spiritismo, perché proibito dalla Chiesa; tuttavia glielo assicuro perché lo so.

-A questo punto lo scheletro cominciò a muover­si in direzione del professore. Questi spaventato e scon­volto, uscì dallo studio e si rifugiò in Cappella, con me­raviglia delle Suore che mai prima di allora ve lo ave­vano visto entrare.

Due giorni dopo si recò a far visita a Giuseppina, ancora profondamente impressionato da quello strano evento. Ella lo incoraggiò e gli consigliò di recarsi a farsi un corso di esercizi spirituali a Genova.

Partì il 4 giugno. Pochi giorno dopo, nella notte tra l’11 e il 12, il professore si trovava nella sua camera, sve­glio, scoraggiato e agitato. Improvvisamente gli si pre­senta Giuseppina.

- Cos'è? È possibile! Lei... com'è entrata qui?

- Colui che le fece quel favore - rispose Giuseppina - ha fatto che io venissi a consolarla, perché lei si trova in grande afflizione.

Era avvenuto un caso di bilocazione, non raro nel­la vita di Giuseppina Berettoni.

Terminata la sua missione, Giuseppina si ritrovò ne suo letto a Roma. Il 15 luglio il professore, accompa­gnato dal figlio maggiore, andò a far visita alla sua ami­ca e benefattrice e si trattenne in colloqui per due ore. Il figlio del convertito, anche lui medico, vivamen­te impressionato dal cambiamento così avvenuto del pa­dre, si diede lui pure a una vita seriamente cristiana. Entrò poi in un convento e volle per umiltà essere fra­tello laico.

(Antico P. - Giuseppina Berettoni - Centro Giusep­pina Berettoni - Via S. Erasmo, 14 - Roma 1978).



Chi è venuto dall'aldilà?

(Maria Santissima a Fatima)

Il 13 maggio 1917 la Vergine Santissima appare a due ragazzine, Lucia di 11 anni e Giacinta di 7, e a un ragazzetto di 9 anni, Francesco, tre pastorelli semplici e buoni che recitavano sempre le preghiere.

Verso mezzogiorno, interrompendo i loro innocen­ti trastulli, i fanciulli recitarono come al solito il santo rosario. Dopo ritornarono ai loro giuochi. A un tratto un lampo li abbagliò. Spaventati guardarono il cielo: non v'era nemmeno una nube e il sole era splendente. Temendo qualche vicino temporale, radunano le peco­re e si avviano per ritornare a casa. A metà della china, ecco un nuovo lampo più abbagliante del primo... Dop­piamente atterriti affrettano il passo, ma un po' più avanti si fermano interdetti e attoniti per la meraviglia. Dinanzi a loro scorgono una bellissima Signora più splendente del sole.

Si svolse subito un piccolo dialogo tra la Signora e Lucia: «Di che paese siete?» domanda la ragazzina. - «Il mio paese è il Cielo» - rispose la Signora.

... Viene dal Cielo... dal Cielo... - rifletté Lucia: «al­lora mi sapreste dire se io andrò in Cielo?» - «Sì, vi

andrai» - rispose la Signora - «E mia cugina Giacin­ta?» - «Anche lei» - «E mio cugino Francesco?» - «Egli pure...» -.

Incoraggiata dalla bontà della Celeste Signora, Lu­cia volle sapere ancora la sorte di due ragazze, sue ami­che e morte da poco e ne ebbe in risposta che la più gio­vane (di 16 anni) era già in Paradiso, l'altra (sui 20 anni) era in Purgatorio... -.

Nella terza apparizione del 13 luglio la Madonna mostrò ai tre fanciulli l'Inferno. Scrive Lucia: «Vedem­mo come un mare di fuoco. Immersi in quel fuoco i dia­voli e le anime, in forma umana, come brace trasparente e nera o bronzea, che fluttuavano nell'incendio e veni­vano trasportate, assieme a nuvole di fumo, dalle fiam­me che uscivano da loro stesse. Esse cadevano da ogni parte, uguali al cadere delle scintille nei grandi incen­di, senza peso né equilibrio tra grida e gemiti di dolore e disperazione che suscitavano orrore e facevano trema­re di paura. I demoni si distinguevano per le forme or­ribili e schifose di animali spaventosi e sconosciuti, ma trasparenti come neri carboni roventi».

Spaventati e come per chiedere aiuto, alzammo gli occhi alla Madonna, che ci disse con bontà e tristezza: «Avete visto l'Inferno dove cadono le anime dei poveri peccatori!… ».



Chi è venuto dall'aldilà?

Nella Casa Provinciale dei Preti della Missione, in Via dei Vergini 51 a Napoli, si conserva, visibile al pub­blico, un quadro rappresentante Gesù Crocifisso in carta incollata su tela, incorniciata da un piccolo telaio di le­gno. Lo straordinario sta nel fatto che porta nella parte inferiore le impronte di due mani incise a fuoco. Qual è l'origine di quelle impronte?

In Firenze un giovane aveva una relazione disone­sta con una donna sposata. Il padre del giovane ne era dolente e più volte aveva rimproverato il figlio, anzi ave­va pregato i Padri Lazzaristi Missionari di Firenze per richiamarlo al dovere, ma inutilmente. Un'improvvisa malattia colpì la donna e in pochi giorni le aprì la tom­ba. Il giovane fu sul unto d'impazzire per il dolore e il padre, approfittano di un corso di esercizi spirituali che si tenevano nella Casa dei Missionari in S. Iacopo SoprArno, invitò il figlio a parteciparvi. Costui vi an­dò e fu accolto con cordialità.

La sera del primo giorno di esercizi, mentre gli al­tri esercitandi sono scesi a refettorio per la cena, il no­stro giovane manca al suo posto. Avrà preso sonno?, pensa il direttore, e va alla sua camera, bussa, senza ri­cevere risposta, bussa ancora, nulla. Apre e trova la ca­mera piena di fumo che subito lo investe. Pensa a un incendio e chiede aiuto. Accorrono diversi confratelli e, attraverso il fumo in parte dileguato per la porta la­sciata aperta, scorgono il giovane disteso sul pavimen­to e senza segni di vita. Trasportatolo sul letto e appre­state le cure necessarie, riescono a farlo rinvenire. Il di­rettore cerca per la camera la causa del supposto incen­dio e con grande meraviglia s'imbatte sull'inginocchia­toio bruciato in quattro parti, cioè là dove si appoggia­no le ginocchia e i gomiti, e vede nel quadro del Croci­fisso le impronte di mani infuocate come fossero state di ferro rovente. Non si rende conto dell'accaduto fin­ché il giovane, rinvenuto, non gli ha spiegato come po­co prima della cena, mentre stava ancora in camera, gli era apparsa l'amante tutta di fuoco. – E’ per causa tua - gli aveva gridato minacciosa - che sono all'inferno! Stà bene in guardia. Dio ha voluto che io te ne dessi l'av­viso; e perché tu non abbia a dubitare della realtà della mia apparizione, te ne lascio il segno. - Inginocchiata­si al genuflessorio e toccato il quadro vi lascia le im­pronte di fuoco che ora si vedono. Il giovane si conver­te. Essendo le due famiglie molto conosciute in Firen­ze, il Superiore, per riguardo al loro onore, cercò di oc­cultare il fatto. Il Padre Scaramelli, Superiore della Ca­sa, tenne presso di sé il quadro e il genuflessorio, fin­ché chiamato all'ubbidienza a Napoli portò con sé il qua­dro, lasciandolo alla Casa in Via dei Vergini.

Così è narrato nel «Petit Pré spir. De la Congr. de la Mission (Parigi 1880)».

Una narrazione più breve si trova nella vita di S. Alfonso de'Liguori scritta dal Tan­noia. Il quadro si conserva a Napoli; l'inginocchiatoio fu fatto scomparire. Sull'episodio il Padre Mario Sor­rentino condusse uno studio critico (Annali della Mis­sione, 1962), arrivando a questa conclusione: «Pensia­mo di poter affermare la verità del fatto come viene co­munemente narrato».



Chi è venuto dall'aldilà?

Domenico Savio

San Domenico Savio, alunno salesiano morto nel 1857 e santificato nel 1954, dopo la sua morte apparve a San Giovanni Bosco. Questi narrava così l'apparizio­ne ai suoi giovani e ai Superiori della Congregazione: «Mi trovavo a Lanzo ed ero nella mia stanza. D'un tratto mi vidi sopra una collina. Il mio sguardo si per­deva nell'immensità di una pianura. Essa era divisa da larghi viali in vastissimi giardini. I fiori, gli alberi, i frut­ti erano bellissimi, e tutto il resto corrispondeva a tan­ta magnificenza.

Mentre contemplavo tanta bellezza, ecco diffonder­si una musica soavissima. Erano centomila strumenti e tutti davano un suono differente l'uno dall'altro. A questi si univano i cori dei cantori.

Mentre estatico ascoltavo la celeste armonia, ecco apparire una quantità immensa di giovani che veniva verso di me. Alla testa di tutti avanzava Domenico Sa­vio. Tutti si fermarono davanti a me alla distanza di otto-dieci passi... Allora brillò un lampo di luce, cessò la musica e si fece un grande silenzio. Domenico Savio si avanzò solo di qualche passo ancora e si fermò vici­no a me. Come era bellissimo! Le sue vesti erano singo­lari; la tunica bianchissima, che gli scendeva fino ai pie­di, era trapuntata di diamanti ed era intessuta d'oro. Un'ampia fascia rossa cingeva i suoi fianchi, ricamata di gemme preziose così che una toccava quasi l'altra. Dal collo gli scendeva una collana di fiori mai visti, sem­brava che fossero diamanti uniti. Questi fiori risplen­devano di luce. Il capo era cinto di una corona di rose. La capigliatura gli scendeva ondeggiante giù per le spal­le e gli dava un aspetto così bello, così affettuoso, così attraente che sembrava... sembrava un Angelo.

Io ero muto e tremante. Allora Domenico Savio disse:

- Perché te ne stai muto e sgomento?

- Non so cosa dire - risposi - Tu dunque sei Do­menico Savio?

- Sono io! Non mi riconosci più? - E come va che ti trovi qui?

- Sono venuto per parlarti. Fammi qualche inter­rogazione.

- Sono naturali tutte queste meraviglie che vedo? - Sì, abbellite però dalla potenza di Dio.

- A me sembrava che questo fosse il Paradiso! - No, no!Nessun occhio mortale può vedere le bel­lezze eterne.

- E voi dunque cosa godete in Paradiso?

- Dirtelo è impossibile. Quello che si gode in Pa­radiso non vi è uomo mortale che possa saperlo, finché non sia uscito di vita e riunito al suo Creatore.

- Orbene, mio caro Savio, dimmi quale cosa ti con­solò di più in punto di morte?

- Ciò che mi confortò di più in punto di morte fu l'assistenza della potente e amabile Madre del Salvato­re, Maria Santissima. E questo dillo ai tuoi giovani: che non dimentichino di pregarla finché sono in vita!». (Vita di S. Giovanni Bosco - Lemoyne).



Chi è venuto dall'aldilà?

Un Sacerdote mi diceva: Sono vecchio. Ho viaggia­to in Europa, in Asia e in Africa. Ho conosciuto tanti Religiosi e Prelati. Ma l'uomo più santo che io abbia av­vicinato è stato Mons. Marengo, il Vescovo della Diocesi di Carrara. Per il molto lavoro a bene del prossimo forse abbreviò i suoi giorni ed il 22 ottobre 1921 mori­va, compianto dai fedeli e chiamato «santo» innanzi tempo.

Erano trascorsi sette anni e il Rev.mo Don Fascie, membro del Capitolo Superiore dei Salesiani, venuto a Trapani nel 1929, così mi narrava:

«Si è verificato in questi ultimi mesi un'apparizio­ne di Mons. Marengo. Nell'Istituto delle Figlie Maria Ausiliatrice, a Nizza, verso l'imbrunire, la Suora porti­naia era nel cortile. Il portone era chiuso. Con sua me­raviglia vide sotto i portici, a passeggiare, un Reveren­do, slanciato nella persona, ma col capo chino e medi­tabondo.

- Ma chi sarà costui? - si domandò la Suora. - E come sarà entrato, se il portone è chiuso? L'avvicinò e riconobbe Mons. Marengo. - Eccellen­za, e voi qui?... Non siete morto?... -

- Mi avete lasciato in Purgatorio!... Ho lavorato tanto per questo Istituto e non si prega più per me! - In Purgatorio?... Un Vescovo così santo?... - Non basta essere santi davanti agli uomini; bi­sogna essere tali davanti a Dio!... Pregate per me!... - Ciò detto, sparì.

La Suora corse ad informare la Direttrice e l'indo­mani tutte e due si diressero alla volta di Torino per nar­rare il fatto al Rettor Maggiore dei Salesiani, Don Fi­lippo Rinaldi, oggi Servo di Dio.

Don Rinaldi indisse pubbliche preghiere nel San­tuario di Maria Ausiliatrice, onde intensificare i suffra­gi. Dopo una settimana Mons. Marengo riapparve nel­lo stesso Istituto, dicendo: Sono uscito dal Purgatorio!. Ringrazio della carità!.. Prego per voi!

(Dal libretto «I nostri morti» di Don Giuseppe To­maselli).



Chi è venuto dall'aldilà?

In una nobile famiglia cattolica del Belgio... un bambino di circa sette anni era moribondo. La madre addoloratissima se ne stava presso il letto, aspettando l'ultimo respiro del figlio. Era il 7 febbraio 1878 alle 5 e tre quarti pomeridiane, al tocco dell’Ave Maria. A un tratto il bambino si anima, si solleva, fissa gli occhi al cielo e stende le braccia esclamando: Mamma, che ve­do! - Che cosa vedi, figlio mio? - disse la madre. - Pio IX che va su su! Oh quanto è bello! Tutto lumino­so! -

La signora credendo che il bambino delirasse pro­curava di calmarlo, ma un istante dopo il bambino esclamava di nuovo: Oh mamma, che bella cosa! La Ma­donna quanto è bella e sorridente! Ha una corona pre­ziosa in mano. Ecco va incontro a Pio IX, gli pone la corona sul capo. -

Dopo essere rimasto un istante a contemplare così giocondo spettacolo, il bambino volgendosi alla madre, che era rimasta sbalordita, le disse: Mamma, sono gua­rito. La Madonna e Pio IX mi hanno benedetto e guarito.

Il bambino era guarito difatti e pieno di vigore. La pia signora che ignorava lo stato allarmante della salu­te del Pontefice, fuori di sé dallo stupore, mandò un do­mestico all'ufficio del telegrafo per chiedere se si aves­sero notizie da Roma. Purtroppo fu risposto: È giunto pocanzi un dispaccio il quale dà l'infausta notizia che il Santo Padre è spirato alle 5 e tre quarti pomeridiane. (Dai Processi di beatificazione del Servio di Dio Pio

IX).



Chi è venuto dall'aldilà?

Interessante è il fatto avvenuto nel 1946 nella per­sona dell'ingegnere Enzo Crozza, domiciliato a Torino, in via Ilarione Petitti, 34.

Quest'ingegnere, ammalatosi nel 1942, si era fatto assistere in famiglia nelle ore notturne da una Suora del Cottolengo, certa SuorAngela Curti. Nel 1944 la Suo­ra moriva nel Cottolengo. L'ingegnere non ne sapeva nulla.

Il Signor Crozza fu operato di appendicite nella sua abitazione nel 1946 e, memore delle delicate cure di Suor Angela Curti, mandò la moglie al Cottolengo per invi­tarla a venire ad assisterlo. Mentre la moglie faceva le scale, incontrò la Suora.

E voi, qui?... Venivo proprio in cerca di voi! - Ho saputo che vostro marito sta male e son venuta a curarlo! -

Per quindici notti consecutive Suor Angela vegliò al capezzale dell'ingegnere. Veniva la sera e partiva al mattino. Finita la sua missione, si licenziò senza chie­dere alcun compenso.

Quando il Signor Crozza si ristabilì discretamente, andò al Cottolengo con la moglie per ringraziare anco­ra una volta la Suora. Quale non fu la sua meraviglia a sentirsi dire: Cercate di Suor Angela?... Ma da due an­ni è al cimitero!... È morta qui! - Eppure la Suora che mi assisteva era lei, in carne e ossa! E non sono io solo a constatare il fatto, ma tutta la famiglia!... -

Come spiegare questo avvenimento? O Suor Ange­la era entrata in Paradiso e veniva in aiuto a persona cara, oppure era in Purgatorio e il Signore le permette­va di compiere ancora qualche atto di carità.



Chi è venuto dall'aldilà?

Un miracolato dalla Beata Assunta Pallotta (+1905) depose:

«Da circa otto mesi me ne stavo a letto per parali­si... Mi raccomandavo a tanti Santi del Paradiso, ma ave­vo una particolare devozione per la Serva di Dio Maria Assunta Pallotta.

Una sera, non posso precisare, ma mi pare nel mag­gio o giugno del 1923, verso le ore otto, standomi io be­ne sveglio nel mio letto, sentii bussare alla porta della camera. Credendo che fosse qualcuno di casa, dissi: Avanti, chi è? - Sentii una voce che mi disse: Sono io, Leoni. -

Contemporaneamente vidi spalancarsi la porta e comparirmi dinanzi la figura di Suor Maria Assunta Pal­lotta nel suo candido abito monacale, cinta il capo di una corona di fiorellini bianchi.

La Serva di Dio introdusse il discorso: Come stai, Leoni? - Risposi: Male! Son tanti mesi che sono qui in­chiodato in questo letto. - La Serva di Dio riprese: Pro­cura di alzarti. - Ed io: Non posso alzarmi. - Ma pro­vaci, che Dio ti ha fatto la grazia. Tu però hai un brutto vizio: bestemmi un po' troppo. - E poiché io volevo scu­sarmi allegando l’abitudine e le circostanze, lei conchiu­se: Bisogna correggersi! - (E difatti ho cercato di correggermi). Ciò detto si ritrasse chiudendo la porta e scomparve.

Allora io provai subito ad alzarmi, e difatti potei scendere dal letto e affacciarmi alla finestra. Mi pare­va di essere rinato.

Il giorno appresso mi alzai, uscii per il paese con meraviglia di tutti. L'indomani potei recarmi in cam­pagna al mio roccolo, alla distanza di due chilometri.

Da quel giorno cammino sempre con relativa speditez­za e facilità.

Il Parroco ne fece un referto. Il medico curante, Dott. Guerriero Consorti, era partito da Force poco tem­po avanti la mia guarigione per assumere la direzione dell'Ospedale di Ancona.

(Dai Processi di beatificazione della Serva di Dio Maria Assunta Pallotta).



Chi è venuto dall'aldilà?

Verso l'autunno del 1917 si trovava in quel tempo a S. Giovanni Rotondo (Foggia) la sorella di Padre Paolino, superiore del convento dei Cappuccini, Assunta di Tommaso, la quale era venuta a visitare il fratello e dor­miva nella foresteria.

Una sera, dopo cena, Padre Pio e Padre Paolino an­darono a salutare la sorella, che si tratteneva vicino al focolare. Quando furono colà Padre Paolino disse: P. Pio, tu puoi restare qui vicino al fuoco, mentre noi andia­mo un po' in chiesa a recitare le preghiere. -

Padre Pio, che era stanco, si mise a sedere sul letti­no con la solita corona in mano, quando viene preso da una sonnolenza che subito gli passa, apre gli occhi e ve­de un vecchio avvolto in un piccolo cappotto che stava seduto vicino al fuoco. Padre Pio, al vedere costui, di­ce: Oh! Tu chi sei? e che cosa fai? - Il vecchio rispon­de: Io sono..., sono morto bruciato in questo convento (nella stanza n. 4, come mi raccontava don Teodoro Vin­citore...) e sto qua per scontare il mio purgatorio per que­sta mia colpa...­

Padre Pio promise che il giorno dopo avrebbe ap­plicato la Messa per lui e che non si facesse più vedere là. Poi l'accompagnò fino all'albero (l'olmo che esiste ancor oggi) e là lo licenziò.

Padre Paolino lo vide per più di un giorno un po' timoroso, e gli domandava che cosa gli fosse accaduto quella sera. Egli rispondeva che si sentiva poco bene. Finalmente un giorno confessò tutto. Allora Padre Pao­lino andò al Comune (anagrafe) ed effettivamente tro­vò nei registri che nel convento era morto bruciato nel­l'anno x un vecchio di nome Di Mauro Pietro (1831-1908). Tutto corrispondeva a quanto aveva detto Padre Pio. Da allora il morto non comparve più.

(P. Alessandro da Ripabottoni - P. Pio da Pietralci­na - Centro culturale francescano, Foggia, 1974, pp. 588-589).



Chi è venuto dall'aldilà?

Nel suo libretto «I nostri morti - La casa di tutti» il salesiano Don Giuseppe Tomaselli scrive quanto se­gue: «Il 3 febbraio 1944, moriva una vecchietta, prossi­ma agli ottant'anni. Era mia madre. Potei contemplare il suo cadavere nella Cappella del cimitero, prima del­la sepoltura. Da Sacerdote allora pensai: Tu, o donna, da quando io posso giudicare, non hai mai violato gra­vemente un solo comandamento di Dio! E riandai col pensiero alla sua vita.

In realtà mia madre era di grande esemplarità e de­vo a lei in gran parte la mia vocazione sacerdotale. Ogni giorno andava a Messa, anche nella vecchiaia, con la corona dei suoi figli. La Comunione era quotidiana. Mai tralasciava il Rosario. Caritatevole, sino a perdere un occhio mentre compiva un atto di squisita carità verso una povera donna. Uniformata ai voleri di Dio, tanto da chiedermi quando mio padre era disteso cadavere in casa: Che cosa posso dire a Gesù in questi momenti per fargli piacere? - Ripeta: Signore, sia fatta la tua volontà! -

Sul letto di morte ricevette gli ultimi Sacramenti con viva fede. Poche ore prima di spirare, soffrendo trop­po, ripeteva: O Gesù, vorrei pregarti di diminuire le mie sofferenze! Però non voglio oppormi ai tuoi voleri; fa' la tua volontà!... - Così moriva quella donna che mi portò al mondo.

Basandomi sul concetto della Divina Giustizia, po­co curandomi degli elogi che potessero fare i conoscen­ti e gli stessi Sacerdoti, intensificai i suffragi. Gran nu­mero di Sante Messe, abbondante carità e, ovunque pre­dicavo, esortavo i fedeli a offrire Comunioni, preghiere e opere buone in suffragio. Iddio permise che la mam­ma apparisse. Da due anni e mezzo mia madre era mor­ta, ecco all'improvviso apparire nella stanza, sotto sem­bianze umane. Era triste assai.

- Mi avete lasciata nel Purgatorio!... - Siete stata sinora in Purgatorio? -

- E ci sono ancora!.. L'anima mia è circondata da oscurità e non posso vedere la Luce, che è Dio... Sono alla soglia del Paradiso, vicino al gaudio eterno, e spa­simo dal desiderio di entrarvi; ma non posso! Quante volte ho detto: Se i miei figli conoscessero il mio terri­bile tormento, ah, come verrebbero in mio aiuto!...

- E perché non veniste prima ad avvisare? - Non era in mio potere. -

- Ancora non avete visto il Signore? -

- Appena spirata, ho visto Dio, ma non in tutta la sua luce. -

- Cosa possiamo fare per liberarvi subito? -

- Ho bisogno di una sola Messa. Dio mi ha permes­so di venirla a chiedere. -

- Appena entrate in Paradiso, ritornate qui a darmi notizia! -

- Se il Signore lo permetterà!... Che luce... che splendore!... - così dicendo la visione si dileguò. Si ce­lebrarono due Messe e dopo un giorno riapparve, dicen­do: Sono entrata in Paradiso! -.



Chi è venuto dall'aldilà?

Una devota di S. Gemma Galgani depose:

«Nel 1906, da circa dieci mesi ero sofferente di for­te dolore al capo, nel quale sentivo come tanti carboni accesi, in maniera che mi sembrava che mi bollisse il cer­vello; mi si bruciò anche tutta la bocca, in maniera che non potevo mangiare e dovevo contentarmi soltanto di bevande diacce, e qualche volta anche d un po' di mine­stra, ma diaccia. Il dottor Lippi Castruccio mi fece quat­tordici visite, e dopo aver sperimentato molti mezzi per farmi guarire, alla fine mi disse: Carina mia, se fosse una rapa o una mela potrei spaccarla e vedere quello che c'è dentro; ma io non so più cosa farti; rassegnati alla vo­lontà di Dio. - Allora io, alzando gli occhi al Cielo e con le mani giunte, dissi: Gemma, se è vero che tu sei in Pa­radiso, dammi questo segno, fammi la grazia, guarisci­mi. Detto così, mi sentii guarita all'istante.

Avevo promesso a Gemma che se avessi ottenuto la grazia della guarigione, l'avrei pubblicata immedia­tamente in suo onore. Però non la pubblicai subito per­ché volevo accertarmi se me l'aveva fatta completa. Non ho avuto più nulla e ho ripreso i miei sonni e le mie abi­tudini senza sentire mai più il minimo dolore di capo, e già sono passati sedici anni dalla grazia ricevuta.

Il medico aveva diagnosticato che la mia malattia fosse una meningite progressiva e tanto grave che ritro­vandomi un giorno per la strada, meravigliato nel ve­dermi, disse: Oh che fai? Ti credevo nella tomba. Gra­zia speciale!

Il Padre Germano; direttore spirituale di S. Gem­ma, nei processi per la beatificazione della medesima (nei quali è contenuta la relazione del miracolo), fa que­sta precisazione: Dall'inizio della malattia, dicembre 1906, ai primi di ottobre dell'anno successivo non potè mai dormire più di un'ora circa il giorno.

Questa è la pura verità - attestò la miracolata nel certificato che rilasciò al medesimo Padre - e la con­fermo con giuramento, io Isolina Serafini.

(Dai Processi di beatificazione della Serva di Dio Gemma Galgani).



Chi è venuto dall’aldilà?

Clara e Annetta

INVITO

Il fatto qui esposto ha un'importanza eccezionale. L'originale è in lingua tede­sca; delle edizioni sono state eseguite in altre lingue.

Il Vicariato di Roma ha dato il per­messo di pubblicare lo scritto. L' « Impri­matur» dell'Urbe è garanzia della tra­duzione dal tedesco e della serietà del tremendo episodio.

Sono pagine svelte e terribili e raccon­tano un tenore di vita in cui vivono mol­te persone dell'odierna società. La mise­ricordia di Dio, permettendo il fatto qui narrato, solleva il velo del più spaven­toso mistero che ci attende al termine della vita.

Ne sapranno approfittare le anime?...



PREMESSA

Clara e Annetta, giovanissime, lavora­vano in una Ditta commerciale a*** (Germania).

Non erano legate da profonda amici­zia, ma da semplice cortesia. Lavoravano ogni giorno l'una accanto all'altra e non poteva mancare uno scam­bio di idee. Clara sì dichiarava aperta­mente religiosa e sentiva il dovere di i­struire e richiamare Annetta, quando questa si dimostrava leggera e superfi­ciale in fatto di religione.

Trascorsero qualche tempo assieme; poi Annetta contrasse matrimonio e si allontanò gialla Ditta. Nell'autunno di quell'anno, 1937, Clara trascorreva le va­canze in riva al lago di Garda. Verso la metà di settembre la mamma le mandò dal paese natio una lettera: « E' morta Annetta N... E' rimasta vittima di un in­cidente automobilistico. L'hanno sepolta ieri nel "Waldfriedhof" ».

La notizia spaventò la buona signori­na, sapendo che l'amica non era stata tanto religiosa. Era preparata a presen­tarsi davanti a Dio?... Morendo all'im­provviso, come si sarà trovata?...

L’indomani ascoltò la S. Messa e fece anche la Comunione in suo suffragio, pregando fervorosamente. La notte se­guente, 10 minuti dopo la mezzanotte, ebbe luogo la visione...



« Clara, non pregare per me! Sono dan­nata. Se te lo comunico e te ne riferisco piuttosto lungamente, non credere che ciò avvenga a titolo di amicizia. Noi qui non amiamo più nessuno. Lo faccio co­me costretta. Lo faccio come « parte di quella potenza che sempre vuole il male e opera il bene ».

In verità vorrei vedere anche te ap­prodare a questo stato, dove io ormai ho gettato l'àncora per sempre.

Non stizzirti di questa intenzione. Qui, noi pensiamo tutti così. La nostra volontà è impietrita nel male - in ciò che voi appunto chiamate « male ». - Anche quando noi facciamo qualche cosa di «bene», come io ora, spalancandoti gli occhi sull'inferno, questo non avviene con buona intenzione.

Ti ricordi ancora che quattro anni fa ci siamo conosciute a ***? Contavi allora 23 anni e ti trovavi colà già da mezz'an­no quando ci arrivai io.

Tu mi hai levata da qualche impiccio; come a principiante, mi hai dato dei buo­ni indirizzi. Ma che vuol dire « buono » ?

Io lodavo allora il tuo « amore del pros­simo ». Ridicolo! Il tuo soccorso derivava da pura civetteria, come, del resto, lo so­spettavo già fin d'allora. Noi non ricono­sciamo qui nulla di buono. In nessuno.

Il tempo della mia giovinezza lo cono­sci. Certe lacune le riempio qui.



Secondo il piano dei miei genitori, a dire il vero, non sarei neanche dovuta esistere. «Capitò loro appunto una di­sgrazia». Le mie due sorelle contavano già 14 e 15 anni, quando io tendevo al­la luce.

Non fossi mai esistita! Potessi ora an­nientarmi e sfuggire a questi tormenti! Nessuna voluttà uguaglierebbe quella con cui lascerei la mia esistenza, come un vestito di cenere, che si perde nel nulla.

Ma io devo esistere. Devo esistere così come mi son fatta io: con una esistenza fallita.

Quando papà e mamma, ancora gio­vani, si trasferirono dalla, campagna in città ambedue avevano perduto il con­tatto con la Chiesa. E fu meglio così.

Simpatizzarono con gente non legata alla chiesa. Si erano conosciuti in un ri­trovo danzante e mezz'anno dopo « do­vettero » sposarsi.

Nella cerimonia nuziale rimase attac­cata a loro tant'acqua santa, che la mam­ma si recava in chiesa alla Messa dome­nicale un paio di volte l'anno. Non mi ha mai insegnato a pregare davvero. Si esau­riva nella cura quotidiana della vita, ben­ché la nostra situazione non fosse disa­giata.

Parole, come pregare, Messa, istruzio­ne religiosa, chiesa, le dico con una ri­pugnanza interna senza pari. Aborrisco tutto questo, come odio chi frequenta la chiesa, e in genere tutti gli uomini e tut­te le cose.

Da tutto, infatti, ci deriva tormento. Ogni cognizione ricevuta in punto di morte, ogni ricordo di cose vissute o sa­pute, è per noi una fiamma pungente.

E tutti i ricordi ci mostrano quel lato che in essi era grazia e che noi sprezzam­mo. Quale tormento è questo! Noi non mangiamo, non dormiamo, non cammi­niamo coi piedi. Spiritualmente incate­nati, guardiamo inebetiti « con urla e stridor di denti » la nostra vita andata in fumo: odiando e tormentati!

Senti? Noi qui beviamo l'odio come ac­qua. Anche l'uno verso l'altro. Soprattutto noi odiamo Dio.

I Beati in cielo devono amarlo, perché essi lo vedono senza velo, nella sua bel­lezza abbagliante. Ciò li beatifica, talmen­te, da non poterlo descrivere. Noi lo sap­piamo e questa cognizione ci rende fu­ribondi.

Gli uomini in terra che conoscono Dio dalla creazione e dalla rivelazione, pos­sono amarlo; ma non ne sono costretti.

Il credente - lo dico digrignando i denti - il quale, meditabondo, contem­pla Cristo in croce, con le braccia stese, finirà con l'amarlo.

Ma colui al quale Dio si avvicina solo nell'uragano, come punitore, come giu­sto vendicatore, perché un giorno fu da lui ripudiato, come avvenne di noi, costui non può che odiarlo, con tutto l'impeto della sua malvagia volontà, eternamen­te, in forza della libera accettazione di esseri separati da Dio: risoluzione con la quale, morendo, abbiamo esalato l'anima nostra e che neppure ora ritiriamo e non avremo mai la volontà di ritirare. Comprendi ora perché l'inferno dura eternamente? Perché la nostra ostinazio­ne giammai si scioglierà da noi. Costretta, aggiungo che Dio è miseri­cordioso persino verso di noi. Dico « co­stretta ». Poiché, anche se dico queste co­se volutamente, pure non mi è permesso di mentire, come volentieri vorrei. Molte cose le affermo contro la mia volontà. Anche la foga d'improperi, che vorrei vo­mitare la devo strozzare.

Dio fu misericordioso verso di noi col non lasciare esaurire sulla terra la no­stra malvagia volontà, come noi sarem­mo stati pronti a fare. Ciò avrebbe au­mentato le nostre colpe e le nostre pene. Egli ci fece morire anzitempo, come me, o fece intervenire altre circostanze mi­tiganti.

Ora egli si dimostra misericordioso ver­so di noi col non costringerci ad avvici­narci a lui più di quanto lo siamo in que­sto remoto luogo infernale; ciò diminui­sce il tormento.

Ogni passo che mi portasse più vicino a Dio, mi cagionerebbe una pena mag­giore di quella che a te recherebbe un passo più vicino a un rogo ardente.

Ti sei spaventata, quando io una vol­ta, durante il passeggio; ti raccontai che mio padre, pochi giorni avanti la mia prima Comunione, mi aveva detto: « An­nettine, cerca di meritarti un bel vesti­tino; il resto è una montatura ».

Per il tuo spavento quasi mi sarei per­fino vergognata. Ora ci rido sopra. L'unica cosa ragionevole in quella montatura era che ci si ammetteva alla Comunione solo a dodici anni. Io allora, ero già abbastanza presa dalla mania dei divertimenti mondani, così che senza scrupoli mettevo in un canto le cose re­ligiose e non diedi grande importanza alla prima Comunione.

Che parecchi bambini vadano ora alla Comunione già a sette anni, ci mette in furore. Noi facciamo di tutto per dare a intendere alla gente che ai bambini man­ca una cognizione adeguata. Essi devono prima commettere alcuni peccati mortali. Allora la bianca Particola non fa più in essi così gran danno, come quando nei loro cuori vivono ancora la fede, la spe­ranza. e la carità - puh! questa roba - ricevute nel battesimo. Ti ricordi come abbia già sostenuto sulla terra questa opinione?



Ho accennato a mio padre. Egli era so­vente in lite con la mamma. Te ne feci allusione solo raramente; me ne vergo­gnavo. Cosa ridicola la vergogna del ma­le! Per noi, qui tutto è lo stesso.

I miei genitori neanche dormivano più nella medesima camera; ma io con la mamma, e il papà nella camera attigua, dove poteva rincasare liberamente a qualsiasi ora. Beveva molto; in tal modo scialacquava il nostro patrimonio. Le mie sorelle erano ambedue impiegate e abbi­sognavano esse stesse, dicevano, del de­naro che guadagnavano. La mamma co­minciò a lavorare per guadagnare qual­che cosa.

Nell'ultimo anno di vita papà batteva spesso la mamma, quando lei non gli vo­leva dar nulla. Verso di me, invece, fu, sempre amorevole. Un giorno - te l'ho raccontato e tu, allora, ti sei urtata del mio capriccio (di che cosa non ti sei ur­tata nei miei riguardi?) - un giorno do­vette portare indietro, per ben due volte, le scarpe comprate, perchè la forma e i tacchi non erano per me abbastanza moderni.

La notte, in cui mio padre fu colpito da apoplessia mortale, avvenne qualche cosa che io, per timore di una interpre­tazione disgustosa, non riuscii mai a con­fidarti. Ma ora devi saperlo. E' importan­te per questo: allora per la prima volta fui assalita dal mio spirito tormentatore attuale.

Dormivo in camera con mia madre. I suoi respiri regolari dicevano il suo pro­fondo sonno.

Quand'ecco mi sento chiamare per no­me. Una voce ignota mi dice: « Che sarà se muore papà? ».

Non amavo più mio padre, dacché trat­tava così villanamente la mamma; co­me, del resto, non amavo fin d'allora as­solutamente nessuno, ma ero solamente affezionata ad alcune persone, che erano buone verso di me. L'amore senza spe­ranza di contraccambio terreno, vive so­lo nelle anime in stato di Grazia. E io non lo ero.

Così risposi alla misteriosa domanda, senza darmi conto donde venisse: «Ma non muore mica!».

Dopo una breve pausa, di nuovo la stes­sa domanda chiaramente percepita. « Ma non muore mica! » mi scappò ancora di bocca, bruscamente.

Per la terza volta fui richiesta: «Che­ sarà se muore tuo padre? ». Mi si presen­tò alla mente come papà spesso veniva a casa piuttosto ubriaco, strepitava, mal­trattava la mamma, e come egli ci ave­va messi in una condizione umiliante di­nanzi alla gente. Perciò gridai indispet­tita: « E gli sta bene! ». Allora tutto tacque.

La mattina seguente, quando la mam­ma volle mettere in ordine la stanza del babbo, trovò la porta chiusa a chiave. Verso mezzogiorno si forzò la porta. Mio padre, mezzo vestito, giaceva cadavere sul letto. Nell'andare a prendere la birra in cantina, doveva essersi buscato qual­che accidente. Era già da lungo tempo malaticcio. (*)

(*) Aveva forse Dio legato la salvezza del padre all'opera buona della figlia, verso la quale quell'uo­mo era stato pur buono? Quale responsabilità per ognuno, lasciar perdere l'occasione di fare del bene al prossimo!



Marta K... e tu mi avete indotta a en­trare nell'« Associazione delle Giovani ». Veramente non ho mai nascosto che tro­vavo abbastanza intonate con la moda parrocchiale le istruzioni delle due diret­trici, le signorine X...

I giuochi erano divertenti. Come sai vi ebbi subito una parte direttiva. Ciò mi andava a genio.

Anche le gite mi piacevano. Mi lasciai perfino indurre alcune volte ad andare alla Confessione e alla Comunione.

A dire il vero, non avevo nulla da con­fessare. Pensieri e discorsi per me non avevano importanza. Per azioni più gros­solane, non ero ancora abbastanza cor­rotta.

Tu mi ammonisti una volta: « Anna, se non preghi, vai alla perdizione! ».

Io pregavo davvero poco e anche que­sto, solo svogliatamente.

Allora tu avevi purtroppo ragione. Tut­ti coloro che bruciano nell'inferno non hanno pregato, o non hanno pregato ab­bastanza.

La preghiera è il primo passo verso Dio. E rimane il passo decisivo. Special­mente la preghiera a colei che fu la Ma­dre di Cristo, il nome della quale noi non nominiamo mai.

La devozione a lei strappa al demonio innumerevoli anime, che il peccato gli consegnerebbe infallibilmente nelle mani. Proseguo il racconto consumandomi d'ira e solo perché devo. Pregare è la co­sa più facile che l'uomo possa fare sulla terra. E proprio a questa cosa facilissima Dio ha legato la salvezza di ognuno.

A chi prega con perseveranza egli a po­co a poco dà tanta luce, lo fortifica in maniera tale, che alla fine anche il pec­catore più impantanato si può definiti­vamente rialzare. Fosse pure ingolfato nella melma fino al collo.

Negli ultimi anni della mia vita non ho più pregato come di dovere e così mi sono privata delle grazie, senza le quali nessuno può salvarsi.

Qui non riceviamo più nessuna gra­zia. Anzi, quand'anche le ricevessimo, le rifiuteremmo cinicamente. Tutte le fluttuazioni dell'esistenza terrena sono cessate in quest'altra vita.

Da voi sulla terra l'uomo può salire dallo stato di peccato allo stato di Gra­zia e dalla Grazia cadere in peccato: spesso per debolezza, talvolta per malizia. Con la morte questo salire e scendere finisce, perchè ha la sua radice nella im­perfezione dell'uomo terreno. Ormai ab­biamo raggiunto lo stato finale.

Già col crescere degli anni i cambia­menti divengono più rari. E' vero, fino alla morte si può sempre rivolgersi a Dio o voltargli le spalle. Eppure, quasi trasci­nato dalla corrente, l'uomo, prima del trapasso, con gli ultimi deboli resti nel­la volontà, si comporta come era abitua­to in vita.

La consuetudine, buona o cattiva, di­viene una seconda natura. Questa lo tra­scina con sé.



Così avvenne anche a me. Da anni vi­vevo lontana da Dio. Per questo nell'ul­tima chiamata della Grazia mi risolvetti contro Dio.

Non fu il fatto che peccassi spesso a esser fatale per me, ma che io non volli più risorgere.

Tu mi hai più volte ammonita di ascol­tare le prediche, di leggere libri di pietà. « Non ho tempo », era la mia risposta ordinaria. Non ci mancava altro per au­mentare la mia incertezza interna!

Del resto devo constatare questo: dal momento che la cosa era ormai così a­vanzata, poco prima della mia uscita dal­l'«Associazione delle Giovani», mi sa­rebbe riuscito enormemente gravoso met­termi su un'altra via. Io mi sentivo mal­sicura e infelice. Ma davanti alla conver­sione si ergeva una muraglia.

Tu non lo devi aver sospettato. Tu te l'eri rappresentata così semplice quando un giorno mi dicesti: « Ma fa una buona Confesione, Anna, e tutto è a posto ».

Io sentivo che sarebbe stato così. Ma il mondo, il demonio, la carne mi tene­vano già troppo saldamente nei loro ar­tigli.

All'influsso del demonio non credetti mai. E ora attesto che egli influisce gagliardamente sulle persone che si trova­no nella condizione in cui mi trovavo io allora.

Soltanto molte preghiere, di altri e di me stessa, congiunte con sacrifici e sof­ferenze, mi avrebbero potuta strappare da lui.

E anche ciò, solo a poco a poco. Se ci sono pochi ossessi esternamente; di os­sessi internamente ce n'è un formicolaio. Il demonio non può rapire la libera vo­lontà a coloro che si dànno al suo influs­so. Ma in pena della loro, per dir così, metodica apostasia da Dio, questi per­mette che il « maligno » si annidi in essi.

Io odio anche il demonio. Eppure egli mi piace, perché cerca di rovinare voial­tri; lui e i suoi satelliti, gli spiriti caduti con lui al principio del tempo.

Essi si contano a milioni. Girovagano per la terra; densi come uno sciame di moscerini, e voi neanche ve ne accorgete.

Non tocca a noi riprovati di tentarvi; questo è ufficio degli spiriti decaduti. Veramente ciò accresce ancor più il lo­ro tormento ogni volta che essi trascina­no quaggiù all'inferno un'anima umana. Ma che cosa non fa mai l'odio?



Benché io camminassi per sentieri lon­tani da Dio, Dio mi seguiva.

Preparavo la via alla Grazia con atti di carità naturale che compivo non di ra­do per inclinazione del mio tempera­mento.

Talvolta Dio mi attirava in una chie­sa. Allora sentivo come una nostalgia. Quando curavo la mamma malaticcia, nonostante il lavoro d'ufficio durante il giorno, e in certo modo mi sacrificavo davvero, questi allettamenti di Dio agi­vano potentemente.

Una volta, nella chiesa dell'ospedale, in cui tu mi avevi condotta durante la pausa del mezzogiorno, mi venne qual­cosa addosso che sarebbe bastato un so­lo passo per la mia conversione: io piansi!

Ma poi la gioia del mondo passava di nuovo come un torrente sopra la Grazia. Il grano soffocava tra le spine.

Con la dichiarazione che la religione è affare di sentimento, come si diceva sem­pre in ufficio, cestinai anche questo invi­to della Grazia, come tutti gli altri.

Una volta tu mi rimproverasti, perché invece di una genuflessione fino a terra, feci appena un informe inchino, piegan­do il ginocchio. Tu lo ritenesti un atto di pigrizia. Non sembrasti neppur sospet­tare che io fin d'allora non credevo più nella presenza di Cristo nel Sacramento.

Ora ci credo, ma solo naturalmente, come si crede in un temporale di cui si scorgono gli effetti.

Intanto mi ero accomodata io stessa una religione a mio modo.

Sostenevo l'opinione, che da noi in uf­ficio era comune, che l'anima dopo la morte risorga in un altro essere. In tal modo continuerebbe a pellegrinare sen­za, fine.

Con ciò l'angosciosa questione dell'aldi là era insieme messa a posto e resa a me innocua.

Perché tu non mi hai ricordato la pa­rabola del ricco epulone e del povero Laz­zaro, in cui il narratore, Cristo, manda immediatamente dopo la morte, l'uno al­l'inferno e l'altro in paradiso?...,Del re­sto, che cosa avresti ottenuto? Nulla di più che con gli altri tuoi discorsi di bi­gottismo!

A poco a poco mi creai io stessa un Dio: sufficientemente dotato da essere chiamato Dio; lontano abbastanza da me da non dover mantenere nessuna re­lazione con lui; vago abbastanza da la­sciarsi, secondo il bisogno, senza mutar la mia religione; rassomigliare a un Dio panteistico del mondo, oppure da lasciar­si poetizzare come un Dio solitario.

Questo Dio non aveva nessun paradi­so da regalarmi e nessun inferno da in­fliggermi. Lo lasciavo in pace. In ciò con­sisteva la mia adorazione per lui.

A ciò che piace si crede volentieri. Nel corso degli anni mi tenni abbastanza convinta della mia religione. In questo modo si poteva vivere.

Una cosa soltanto mi avrebbe spezza­to la cervice: un lungo, profondo dolore. E questo dolore non venne!

Comprendi ora cosa vuol dire: « Dio castiga quelli che ama! »?



Era una domenica di luglio, quando l'Associazione delle giovani organizzo u­na gita a ***. La gita mi sarebbe piaciu­ta. Ma quegli insulsi discorsi, quel fare da bigotti!

Un altro simulacro ben diverso da quello della Madonna di *** stava da poco tempo sull'altare del mio cuore. L'aitante Max N... del negozio attiguo. Poco tempo prima avevamo scherzato più volte.

Appunto per quella domenica egli mi aveva invitata a una gita. Quella con cui andava di solito, giaceva malata all'o­spedale.

Egli aveva ben capito che gli avevo messo gli occhi addosso. Sposarlo non ci pensavo ancora allora. Era bensì agiato, ma si comportava troppo gentilmente con tutte le ragazze. E io, fino a quel tempo, volevo un uomo che appartenes­se unicamente a me. Non solo essere mo­glie, ma moglie unica. Un certo galateo naturale, infatti, l'ebbi sempre.

Nella suaccennata gita Max si profuse in gentilezze. Eh! già, non si tennero mi­ca delle conversazioni pretesche come tra voialtre!

Il giorno seguente, in ufficio, tu mi fa­cesti dei rimproveri, perché non ero ve­nuta con voi a ***. Io ti descrissi il mio divertimento di quella domenica.

La tua prima domanda fu: « Sei stata alla Messa? » Sciocchina! Come potevo, dato che la partenza era già fissata per le sei?!

Sai ancora, come io, eccitata aggiunsi: «Il buon Dio non ha una mentalità così piccina come i vostri pretacci! ».

Ora devo confessare: Dio, nonostante la sua infinita bontà, pesa le cose con maggior precisione che tutti i preti. Dopo quella prima gita con Max, ven­ni ancora una volta sola all'Associazio­ne: a Natale, per la celebrazione della fe­sta. C'era qualche cosa che mi allettava a tornare. Ma internamente mi ero già allontanata da voialtre.

Cinema, ballo, gite si avvicendevano senza tregua. Max e io bisticciammo al­cune volte, ma seppi sempre incatenarlo di nuovo a me.

Molestissima mi riuscì l'altra amante, che, tornata dall'ospedale, si comportò come un'ossessa. Veramente per mia for­tuna; poiché la mia nobile calma fece potente impressione su Max, che finì col decidere che io fossi la preferita.

Avevo saputo rendergliela odiosa, par­lando freddamente: all'esterno positiva, nell'interno vomitando veleno. Tali sen­timenti e tale contegno preparano eccel­lentemente per l'inferno. Sono diabolici nel più stretto senso della parola.

Perché ti racconto ciò? Per riferire co­me io mi staccai definitivamente da Dio. Non già, del resto, che tra me e Max si sia arrivati molto spesso fino agli estre­mi della familiarità. Comprendevo che mi sarei abbassata ai suoi occhi, se mi fossi lasciata andare del tutto, prima del tempo; perciò mi seppi trattenere.

Ma in sé, ogni volta che lo ritenevo utile, ero sempre pronta a tutto. Dovevo conquistare Max. A tale scopo nulla era troppo caro. Inoltre, a poco a poco ci a­mavamo, possedendo ambedue non po­che preziose qualità, che ci facevano sti­mare vicendevolmente. Io ero abile, ca­pace, di piacevole compagnia. Così mi tenni saldamente in mano Max e riuscii, almeno negli ultimi mesi prima del ma­trimonio, a essere l'unica a possederlo.

In ciò consiste la mia apostasia da Dio: elevare una creatura a mio idolo. In nes­suna cosa può avvenire questo, in modo che abbracci tutto, come nell'amore di una persona dell'altro sesso, quando que­st'amore rimane arenato nelle soddisfa­zioni terrene. E' questo che forma la sua attrattiva, il suo stimolo e il suo veleno. L'« adorazione », che io tributavo a me stessa nella persona di Max, divenne per me religione vissuta.

Era il tempo in cui in ufficio mi sca­gliavo velenosa contro i chiesaioli, i pre­ti, le indulgenze, il biascichìo dei rosari e simili sciocchezze.

Tu hai cercato, più o meno argutamen­te, di prendere le difese di tali cose. Ap­parentemente senza sospettare che nel più intimo di me non si trattava, in ve­rità, di queste cose, io cercavo piuttosto un sostegno contro la mia coscienza - allora avevo bisogno di un tale sostegno - per giustificare anche con la ragione la mia apostasia.

In fondo in fondo, mi rivoltavo contro Dio. Tu non lo comprendesti; mi ritenevi ancora per cattolica. Volevo, anzi, essere chiamata così; pagavo perfino le tasse ec­clasistiche. Una certa « contro-assicura­zione », pensavo, non poteva nuocere.

Le tue risposte può darsi alle volte ab­biano colpito nel segno. Su di me non fa­cevano presa, perché tu non dovevi ave­re ragione.

A causa di queste relazioni falsate fra noi due, fu meschino il dolore del nostro distacco, allorché ci separammo in occa­sione del mio matrimonio.

Prima dello sposalizio mi confessai e comunicai ancora una volta. Era pre­scritto. Io e mio marito su questo punto la pensavamo ugualmente. Perché non avremmo dovuto compiere questa forma­lità? Anche noi la compimmo, come le altre formalità.

Voi chiamate indegna una tale Comu­nione. Ebbene, dopo quella Comunione «indegna », io ebbi più calma nella co­scienza. Del resto fu anche l'ultima.



La nostra vita coniugale trascorreva, in genere, quanto mai in grande armonia. Su tutti i punti di vista noi eravamo del­lo stesso parere. Anche in questo: che non volevamo addossarci il peso dei figli. Veramente mio marito ne avrebbe volen­tieri voluto uno; non di più, si capisce. Alla fine io seppi stornarlo anche da que­sto desiderio.

Vesti, mobili di lusso, ritrovi da thè, gite e viaggi in auto e simili distrazioni m'importavano di più.

Fu un anno di piacere sulla terra quel­lo trascorso tra il mio sposalizio e la mia repentina morte.

Ogni domenica andavamo fuori in au­to, oppure facevamo visite ai parenti di mio marito. Di mia madre ora mi vergo­gnavo. Essi galleggiavano alla superficie dell'esistenza, né più né meno di noi.

Internamente, si capisce, non mi sen­tii mai felice, per quanto esternamente ridessi. C'era sempre dentro di me qual­cosa di indeterminato, che mi rodeva. A­vrei voluto che dopo la morte, la quale naturalmente doveva essere ancora mol­to lontana, tutto fosse finito.

Ma è proprio così, come un giorno, da bambina, sentii dire in una predica: che, Dio premia ogni opera buona che uno compie, e quando non la potrà ricompen­sare nell'altra vita, lo fa sulla terra. Inaspettatamente ebbi un'eredità dalla zia Lotte. A mio marito riuscì felicemen­te di portare il suo stipendio a una cifra notevole. Così potei ordinare la nuova abitazione in modo attraente.

La religione non mandava più che da lontano la sua luce, scialba, debole e in­certa.

I caffè della città, gli alberghi, in cui andavamo durante i viaggi, non ci por­tavano certamente a Dio.

Tutti coloro, che frequentavano quei luoghi, vivevano, come noi, dall'esterno all'interno, non dall'interno all'esterno.

Se nei viaggi delle ferie visitammo qualche chiesa, cercavamo di ricrearci nel contenuto artistico delle opere. L'a­lito religioso che spiravano, specialmen­te quelle medioevali, sapevo neutralizzar­lo col criticare qualche circostanza ac­cessoria: un frate converso impacciato o vestito in modo non pulito, che ci faceva da cicerone; lo scandalo che dei monaci, i quali volevano passare per pii vendes­sero liquori; l'eterno scampanio per le sacre funzioni, mentre non si tratta che di far soldi...

Così seppi continuamente scacciare da me la Grazia ogni volta che bussava. Lasciavo libero sfogo al mio malumo­re in modo particolare su certe rappre­sentazioni medioevali dell'inferno nei ci­miteri o altrove, nelle quali il demonio arrostisce le anime in brage rosse e in­candescenti, mentre i suoi compagni, dal­le lunghe code, gli trascinano nuove vit­time. Clara! L'inferno si può sbagliare a disegnarlo, ma non si esagera mai!

Il fuoco dell'inferno l'ho sempre preso di mira in modo speciale. Tu lo sai come durante un alterco, in proposito ti tenni una volta un fiammifero sotto il naso e ti dissi con sarcasmo: « Ha questo odo­re? ».

Tu spegnesti in fretta la fiamma. Qui non la spegne nessuno.

Io ti dico: il fuoco di cui si parla nel­la Bibbia, non significa tormento della coscienza. Fuoco è fuoco! E' da intender­si letteralmente ciò che ha detto lui: «Via da me, maledetti, nel fuoco eterno! ». Letteralmente.

« Come può lo spirito essere toccato da fuoco materiale? », domanderai. Come può l'anima tua soffrire sulla terra quan­do tu metti il dito sulla fiamma? Difatti non brucia l'anima; eppure che tormen­to ne prova tutto l'individuo!

In modo analogo noi qui siamo spiri­tualmente legati al fuoco, secondo la no­stra natura e secondo le nostre facoltà. L'anima nostra è priva del suo naturale battito d'ala; noi non possiamo pensare ciò che vogliamo né come vogliamo.

Non meravigliarti di queste mie paro­le. Questo stato, che a voialtri non dice nulla, mi riarde senza consumarmi.



Il nostro maggior tormento consiste nel sapere con certezza che noi non ve­dremo mai Dio.

Come può questo tormentare tanto, dal momento che uno sulla terra rimane così indifferente?

Fintanto che il coltello giace sulla ta­vola, ti lascia fredda. Si vede quanto è affilato, ma non lo si prova. Immergi il coltello nella carne e ti metterai a gri­dare dal dolore.

Adesso noi sentiamo la perdita di Dio; prima la pensavamo soltanto.

Non tutte le anime soffrono in misura eguale.

Con quanta maggior cattiveria e quan­to più sistematicamente uno ha peccato, tanto più grave pesa su di lui la perdita di Dio e tanto più lo soffoca la creatura di cui ha abusato.

I cattolici dannati soffrono di più che quelli di altre religioni, perchè essi, per lo più, ricevettero e calpestarono più gra­zie e più luce.

Chi più seppe, soffre più duramente di chi conobbe meno.

Chi peccò per malizia, patisce più acu­tamente di chi cadde per debolezza.

Mai nessuno patisce più di quello che ha meritato. Oh, se non fosse vero ciò, io avrei un motivo d'odiare!

Tu mi dicesti un giorno che nessuno va all'inferno senza saperlo: ciò sarebbe stato rivelato a una santa.

Io me ne risi. Ma poi mi trincerai den­tro questa dichiarazione.

« Così, in caso di necessità, rimarrà abbastanza tempo per fare una «voltata», mi dicevo segretamente.

Quel detto è giusto. Veramente, prima della mia subitanea fine, non conobbi l'inferno com'è. Nessun mortale lo cono­sce. Ma io ne avevo la piena coscienza: «Se muori, vai nel mondo di là dritta come una freccia contro Dio. Ne porte­rai le conseguenze».

Io non feci dietro-front, come ho già detto, perchè trascinata dalla corrente dell'abitudine. Spinta da quella confor­mità per cui gli uomini, quanto più in­vecchiano, tanto più agiscono in una stessa direzione.



La mia morte avvenne così.

Una settimana fa - parlo secondo il vostro computo, perchè rispetto al dolo­re, potrei dire benissimo che son già, die­ci anni che brucio nell'inferno - una settimana fa, dunque, mio marito e io facemmo di domenica una gita, l'ultima per me.

Il giorno era sputato radioso. Mi senti­vo bene quanto mai. M'invase un sini­stro sentimento di felicità, che serpeggiò in me per tutta la giornata.

Quand'ecco all'improvviso, nel ritorno, mio marito fu abbacinato da un'auto che veniva di volata. Perdette il controllo.

« Jesses (*),

(*) Storpiamento di Jesus, usato frequentemente fra alcune popolazioni di lingua tedesca.



mi scappò dalle labbra con un brivido. Non come preghiera, solo co­me grido. Un dolore straziante mi compresse tutta. - In confronto con quello presente una bagatella. - Poi perdetti i sensi.

Strano! Quella mattina era sorto, in me, in modo inspiegabile, questo pensie­ro: « Tu potresti ancora una volta anda­re a Messa ». Suonava come un'implo­razione.

Chiaro e risoluto, il mio « no » troncò il filo dei pensieri. « Con queste cose bi­sogna farla finita una volta. Mi addosso tutte le conseguenze! ». - Ora le porto.

Ciò che avvenne dopo la mia morte, già lo saprai. La sorte di mio marito, quella di mia madre, ciò che accadde del mio cadavere e lo svolgimento del mio fune­rale mi son noti nei loro particolari me­diante cognizioni naturali che noi qui abbiamo.

Quello, del resto, che succede sulla terra lo sappiamo solo nebulosamen­te. Ma ciò che in qualche modo ci tocca da vicino, lo conosciamo. Così vedo an­che dove tu soggiorni.

Io stessa mi risvegliai improvvisamen­te dal buio, nell'istante del mio trapasso. Mi vidi come inondata da una luce ab­bagliante.

Fu nel luogo medesimo dove giaceva il mio cadavere. Avvenne come in un tea­tro, quando nella sala d'un tratto si spen­gono le luci, il sipario si divide rumoro­samente e si apre una scena inaspettata, orribilmente illuminata. La scena della mia vita.

Come in uno specchio l'anima mia si mostrò a me stessa. Le grazie calpestate dalla giovinezza fino all'ultimo « no» di fronte a Dio.

Io mi sentii come un assassino, al qua­le, durante il processo giudiziario, vien portata dinanzi la sua vittima esanime. - Pentirmi? Mai! - Vergognarmi? Mai!

Però non potevo neppure resistere sot­to gli occhi di Dio, da me rigettato. Non mi rimaneva che una cosa: la fuga.

Come Caino fuggì dal cadavere di Abe­le, così l'anima mia fu spinta via da quel­la vista di orrore.

Questo fu il giudizio particolare: l'in­visibile Giudice disse. « Via da me! ». Allora la mia anima, come un'ombra gialla di zolfo, precipitò nel luogo dell'e­terno tormento.



CONCLUDE CLARA

La mattina, al suono dell'Angelus, an­cora tutta tremante per la notte spaven­tosa, mi alzai e corsi per le scale nella cappella.

Il cuore mi pulsava fin sulla gola. Le poche ospiti, inginocchiate vicino a me, nd guardarono; ma forse pensarono che fossi così eccitata per la corsa fatta giù per le scale.

Una signora bonaria di Budapest, che mi aveva osservata, mi disse dopo sorri­dendo:

- Signorina, il Signore vuole essere servito con calma, non di corsa!

Ma poi si accorse che qualcosa d'altra mi aveva eccitato e mi teneva ancora in agitazione. E mentre la signora mi rivol­geva altre buone parole, io pensavo: Dio solo mi basta!

Sì, egli solo mi deve bastare in questa - e nell'altra vita. Voglio un giorno poter­lo godere In Paradiso, per quanti sacri­fici mi possa costare in terra. Non voglio andare all'inferno!