amami come sei...

AMAMI COME SEI (Gesù parla a un’anima) “Conosco la tua miseria, le lotte e le tribolazioni della tua anima, le deficienze e le infermità del tuo corpo: - so la tua viltà, i tuoi peccati, e ti dico lo stesso: “Dammi il tuo cuore, amami come sei...”. Se aspetti di essere un angelo per abbandonarti all'amore, non amerai mai. Anche se sei vile nella pratica del dovere e della virtù, se ricadi spesso in quelle colpe che vorresti non commettere più, non ti permetto di non amarmi. Amami come sei. In ogni istante e in qualunque situazione tu sia, nel fervore o nell'aridità, nella fedeltà o nella infedeltà, amami... come sei.., Voglio l'amore del tuo povero cuore; se aspetti di essere perfetto, non mi amerai mai. Non potrei forse fare di ogni granello di sabbia un serafino radioso di purezza, di nobiltà e di amore ? non sono io l'Onnipotente ?. E se ml piace lasciare nel nulla quegli esseri meravigliosi e preferire il povero amore del tuo cuore, non sono io padrone del mio amore? Figlio mio, lascia che Ti ami, voglio il tuo cuore. Certo voglio col tempo trasformarti ma per ora ti amo come sei... e desidero che tu faccia lo stesso; io voglio vedere dai bassifondi della miseria salire l'amore. Amo in te anche la tua debolezza, amo l'amore dei poveri e dei miserabili; voglio che dai cenci salga continuamente un gran grido: “Gesù ti amo”. Voglio unicamente il canto del tuo cuore, non ho bisogno né della tua scienza, né del tuo talento. Una cosa sola m'importa, di vederti lavorare con amore. Non sono le tue virtù che desidero; se te ne dessi, sei così debole che alimenterebbero il tuo amor proprio; non ti preoccupare di questo. Avrei potuto destinarti a grandi cose; no, sarai il servo inutile; ti prenderò persino il poco che hai ... perché ti ho creato soltanto per l'amore. Oggi sto alla porta del tuo cuore come un mendicante, io il Re dei Re! Busso e aspetto; affrettati ad aprirmi. Non allegare la tua miseria; se tu conoscessi perfettamente la tua indigenza, morresti di dolore. Ciò che mi ferirebbe il cuore sarebbe di vederti dubitare di me e mancare di fiducia. Voglio che tu pensi a me ogni ora del giorno e della notte; voglio che tu faccia anche l’azione più insignificante solo per amore. Conto su di te per darmi gioia… Non ti preoccupare di non possedere virtù: ti darò le mie. Quando dovrai soffrire, ti darò la forza. Mi hai dato l’amore, ti darò di saper amare al di là di quanto puoi sognare… Ma ricordati… amami come sei… Ti ho dato mia Madre; fa passare, fa passare tutto dal suo Cuore così puro. Qualunque cosa accada, non aspettare di essere santo per abbandonarti all’amore, non mi ameresti mai… Va…”

sabato 9 ottobre 2010

CECILIA E L’ANGELO

CECILIA E L’ANGELO

Antologia dal libro "Devo narrare la mia vita", di Cecilia Cony, compilata dai coniugi Signorile. Tutta la nostra riconoscenza a fra' Damaso cappuc­cino per la grafica della copertina, a Ivano Bullo per le figure e inoltre a don Massimo Astrua, Anna­maria, Gloria e Miguel per consigli ed aiuti preziosi.

Alla memoria del salesiano don Umberto Maria Pasquale, che nella sua intensa e preziosa attività tanto si adoperò per l'educazione dei giovani, nel decimo anniversario della sua nascita al Cielo dedichiamo con affettuosa riconoscenza, coniugi Signorile

Prefazione
"Devo narrare la mia vita" è l'Autobiografia di una giovane brasiliana, CECILIA CONY (4.4.1900 - 24.4.1939), scritta per ordine del suo direttore spirituale e tradotta in italiano dal sale­siano don Umberto Maria Pasquale, che la fece stampare nel 1954, dalla Casa Editrice L.D.C.

Quando, nel lontano 1976, ci capitò tra le mani questo "fiore portato in dono alla gioventù italiana" da don Pasquale al suo ritorno da un viaggio apostolico in Brasile, lo leggemmo tutto in un fiato col piacere di chi, assetato, beve acqua pura ad una fonte cristallina scintillante al sole.

Restammo subito affascinati da questa sto­ria di un'anima singolarmente innocente e del suo Angelo Custode, storia che si svolge dall'in­fanzia alla giovinezza.

Ma cogliemmo anche il grande valore edu­cativo di queste pagine che stimolano alla imita­zione, attirando i cuori che si stanno aprendo alla vita a percorrere quella Via, che sola porta alla vera saggezza e alla gioia profonda e senza fine.

Ci nacque il desiderio di una ristampa. Ma altri lavori ci occuparono il cuore e la mente... Arrivati al 1995, decimo anniversario della dipartita di don Pasquale, col cuore sempre tra­boccante di riconoscenza per l'opera da lui svolta attorno alla Causa della Serva di Dio Alexandrina Maria da Costa (è avviato lo studio per 1' eroicità delle virtù), e (oggi: 2005, Beata) anche per la sua attività - da vero salesiano - in favore della gioventù, sentiamo il bisogno di far rivivere le esperienze narrate in questa Autobiografia offrendole ai giovani d'og­gi, in ricordo di quell'appassionato e infaticabile educatore.

Dall'intera opera abbiamo stralciato i qua­dri più significativi, evitando di ripetere espe­rienze analoghe, e li abbiamo esposti in ordine cronologico, limitandoci alla soglia dei 18 anni.

Ci si è presentato il problema: a quale pub­blico indirizzare?

Sono esperienze che riguardano l'infanzia, la fanciullezza, la giovinezza: lettori di queste età sono dunque quelli che dovrebbero succhia­re questo nettare, salutare per la loro crescita.

Ma la ingenuità, la bellezza di alcune sce­ne e la freschezza con cui sono descritte posso­no essere colte meglio da adulti che, immersi nella nostra società attuale, hanno nostalgia di certi valori trascurati, di certe purezze perdute, o almeno smarrite.

Tuttavia il nostro scopo è principalmente educativo - pensiamo così di interpretare anche il desiderio di don Pasquale. -

Quindi il nostro destinatario non è l'adulto. Perciò ogni capitoletto è introdotto da alcune frasi, in carattere corsivo che ne eviden­ziano i preziosi insegnamenti. Il giovane lettore può essere così aiutato a trarre maggior profitto. Ma auspichiamo che sia la mamma, la mae­stra o la catechista, comunque un educatore, a gui­darlo nella meditazione sulla lettura, facendogli fare utili raffronti con sue esperienze personali. La nostra Cecilia è dotata di una sensibilità eccezionale e di una grande capacità di amare, per cui soffre e gode anche per situazioni od eventi che comunemente vengono sottovalutati. Possiede inoltre lo speciale dono di avverti­re la presenza del suo Angelo Custode. Ma tiene solo per sé, chiuso nel suo cuoricino, ben nel profondo, il segreto della presenza del suo grande Amico.

Questi, ora la difende in situazioni perico­lose, ora la stimola a fare cose buone. Sono due interventi in forme diverse.

Quando Cecilia non sa del male a cui va in­contro o del pericolo in cui sta per cadere, l'Angelo interviene come una forza che agisce in modo sensibile ("lo sentivo realmente, senza vederlo, ma come se lo vedessi"); l'azione in questi casi è risolutiva e indipendente dalla volontà della fanciulla.

Quando invece si tratta di, suggerirle un comportamento buono, di stimolarla ad un'ope­ra costosa di carità, ad una penosa rinuncia, la presenza dell'Angelo è molto discreta, delicata: la fanciulla avverte come una mano che si posa su una sua spalla... allora lei si fa attenta per comprendere, e sempre vi riesce ("Egli mi par­lava senza farmi udire la sua voce e io lo inten­devo"). Qui interviene la sua volontà, che è libe­ra di acconsentire o di rifiutarsi.

Ed è molto educativa la descrizione della lotta che deve fare in se stessa: lotta tra la sua volontà di bene - sia pure stimolata dall'Angelo - e la sua natura umana che rifugge da certi sacrifici. Ma dalla lotta esce sempre vittoriosa.

E' bello e stimola all'imitazione il vedere alla fine la gioia per la vittoria ottenuta, la con­solazione che sente per il bene compiuto e, soprattutto, per il sentirsi amata e approvata dal suo Gesù, oltre che dal suo grande amico Ange­lo. L'aver agito per amore, e il sentirsi quindi in sintonia con Gesù, la ricompensa largamente della sofferenza provata.

E queste non sono parole astratte, ma re­altà vissuta!

"Cecilia ha il suo Angelo Custode che l'aiu­ta tanto... ma io non sono Cecilia, dunque..." potrebbe concludere il giovane lettore.

"Dunque, tu pure hai il tuo Angelo Cus­tode, anche se non ne avverti la presenza". Ecco qui l'opera dell'educatore, che dal­l'esempio di questa Cecilia può essere aiutato a far sviluppare i germi buoni nascosti nella gio­vane coscienza. Infatti la piccola protagonista vive in modo concreto e nella forma più genuina ed elevata l'insegnamento di Gesù: in ogni suo atteggiamento si vede il Vangelo vissuto in pie­nezza.

Qualche esempio. Accusata ingiustamente, non accusa la vera colpevole che lei conosce, ma subisce in silenzio l'ingiustizia, le ingiurie, gli scherni, il castigo... Questo ricorda il comportamento di S. Domenico Savio. Ha la forza di non svelare le azioni buone da lei compiute, anche quando la giustificherebbero; e di questo silenzio subisce le conseguenze dolorose, le umiliazioni, le incomprensioni... E' un microe­sempio di quanto accade a tutti coloro che han­no il coraggio di vivere fino in fondo il Vangelo e di proclamarlo a questo mondo tanto diverso: devono affrontare la incomprensione, le derisio­ni, devono soffrire molto.

Ma la gioia soprannaturale che li infiamma e li sostiene, è tale che "intender non la può chi non la prova". (Dante)

Questo lavoretto si presenta come una suc­cessione di 36 flaches, i 36 capitoletti.

Nei primi due non compare ancora l'An­gelo Custode; sono stati riportati perchè dànno un'idea dell'atmosfera spirituale respirata dalla nostra Cecilia quando cominciava appena ad aprirsi alla vita.

In ciascuno degli altri è palese la presenza dell'Angelo.

coniugi Signorile

5 marzo 1995

PARLA UN VESCOVO

Don Pasquale, nella sua Presentazione, ha messo il seguente giudizio del vescovo di Bon­fini, che ci è parso bene riportare.

«La semplicità, anzi l'ingenuità, nel rac­contare queste memorie è una delle prove della loro veridicità: uno stile come questo non si inventa. Pare il linguaggio dei "Fioretti" di San Francesco.

Anche l'umile ruscello senza pretese che scorre tra campi e boschi, sussurra:

"Mi cerchi chi vuole, mi contempli, si av­vicini a me e beva della mia acqua chi vuole; mi creda chi vuole. Io sono un nulla: sono un ruscel­letto accarezzato soltanto dagli angeli, illuminato dal sole del buon Dio"...

Il mondo carico, saturo di crimini e di pec­cati, si immerge in abissi profondi. Soltanto ani­me amanti della Croce, serafiche nell'amore, potranno ridargli il suo equilibrio.

Il mondo orgoglioso e saccente, si compli­ca ogni giorno di più. Soltanto la semplicità del Vangelo, lo spirito d'infanzia spirituale insegna­to da S. Teresina, vissuto da suor Maria An­tonietta (al secolo Cecilia Cony) lo potranno sal­vare.

Demoni visibili e invisibili infestano città e campagne, focolari e scuole, fabbriche e pa­lazzi. Soltanto gli angeli di Dio, così ignorati e dimenticati, li potranno debellare.

Ci pare sia questa la triplice missione di colei che ha vissuto e tracciato queste memo­rie.»

Mons. Henrique Golland Trindade Vescovo di Bonfim
CAPITOLO 1 °

IL BUON PAPA' DEL CIELO
Già questo capitolo offre spunti di grande valore educativo:

1 - abitudine all'esame di coscienza ("tro­vavo in me la causa della sua tristezza");,

2 - pentimento ("mi assaliva un forte dispiacere per aver rattristato il buon Dio ");

3 - fiducia nell'amore del Padre ("appena gli prometto di esser buona, Egli mi vuole nuo­vamente bene").

Devo narrare la mia vita! Lo farò con sem­plicità, per ubbidire, per glorificare Dio al quale devo tutto ciò che sono.

Nacqui il 4 aprile 1900.

Il più lontano ricordo della mia infanzia risale ai miei quattro anni. Ho ben presente la mia cittadina natale, S.Vittoria di Palmar, la casa paterna, i bimbi con i quali mi trastullavo e per­sino quel pomeriggio del 2 febbraio 1904 in cui, mentre ero seduta sulla scala esterna che dava nel cortiletto e mi divertivo col mio orsacchiotto di feltro, papà venne a chiamarmi per dirmi: "Cecilia, vieni a vedere un bel fratellino che mamma ti ha portato... E' un regalo del Sig­nore!"

A quell'epoca io avevo già una nozione di Dio; nozione legata ad immagini materiali, ma incancellabile.

Ricordo il crocifisso col piedestallo, posto su di un armadio e che Acacia, la governante, mi mostrava alzandomi con le sue braccia nere; ricordo pure il grande quadro della Santissima Trinità nella camera della mamma e 1'acquasan­tino su cui era scolpita una Immacolata.

Conoscevo Dio col nome di "buon Papà del Cielo". Chi mi parlò di Lui, fu mio padre.

In un giorno di temporale, mio padre stava leggendo disteso su di una sedia a sdraio. Spaventata dai tuoni e dai lampi, mi rifu­giai tra le sue ginocchia. Allora egli mi disse: "Senti? È il buon Papà del Cielo che è tri­ste ed irato con i bimbi e con i grandi che non vogliono esser buoni. Quando i bimbi sono bu­oni, Egli è contento e manda il sole."

Da allora fino ai sei anni, ogni mattina allo svegliarmi il mio primo pensiero era di sapere se c'era il sole o se pioveva. Se pioveva, ma senza tuoni, pensavo tra me e me che il buon Papà del Cielo era triste, ma non irato.

Quasi sempre trovavo in me stessa la causa della sua tristezza: o perchè avevo strillato per lasciarmi pettinare, o avevo fatto i capricci per ottenere che mi portassero a vedere il cavallo di papà, o avevo fatto smorfie e la testarda per man­giare. Un giorno in cui buttai per terra il cucchiaio e battei i piedi, piovve con tuoni spaventosi.

Avveniva però che, dopo tali biricchinate, mi assaliva un forte dispiacere per aver rattristato il buon Dio ... Mi rifugiavo di corsa nella camera della mamma, fissavo il grande quadro della SS. Trinità per vedere se l'Eterno Padre, dalla barba bianca come neve, era ancora triste ed irato. Mai, proprio mai durante tre anni, il Volto santo del buon Papà del Cielo mi parve irato.

Così mi abituai ad amare il Signore e pen­savo: il buon Papà è tanto buono e mi vuol bene; quando faccio la cattiva a Lui non piace, ma appena gli prometto di essere buona, Egli mi vuol nuovamente bene.

Queste cose non le raccontai mai a nessuno. Poche volte udii allora parlare di Dio, anzi, a cinque anni non sapevo ancora pregare. Imparai solo più tardi, in collegio.

Sapevo che il buon Dio abita in Cielo e che tutto ciò che è bello e buono fu fatto da Lui.

CAPITOLO 2°

IL FRATELLO CROCIFISSO E LA SUA MAMMA

Qui è descritta l'intensa sensibilità affetti­va per Gesù, con il grande dolore nel vederlo crocifisso.

Questo stimola a sviluppare sentimenti salutari, preziosi...

Fino ad allora (ha circa 4 anni) conoscevo soltanto il buon "Papà del Cielo", dalla barba bianca come la bambagia. Non avevo ancora sen­tito parlare del Crocifisso.

In quel tempo abitava a Santa Vittoria una signora chiamata Gloria che aveva un collegio fre­quentato dalle mie sorelle. Da qui, le sue relazioni con la mia famiglia. Mi affezionai subito a lei.

Un giorno me ne stavo seduta sulle sue gi­nocchia quando, ad un certo momento, mi portò vicino al mobile su cui era il Crocifisso e mi chiese: "Chi è?'. Non seppi rispondere. Mi domandò pure se sapevo chi rappresentava 1'im­maginetta dell'acquasantino. Nulla. Ma quando mi interrogò sul quadro della Santissima Trinità, risposi subito: "È il buon Papà del Cielo!"

Allora lei mi spiegò, indicandomi il Cro­cifisso: "Questo è il nostro Fratellino, il Figlio del buon Papà del Cielo. Tu ti chiami Cecilia e Lui si chiama Gesù. Abita in Cielo ed ha fatto tutte le cose belle e buone che hai qui in casa.

Gesù disse: «Porterò in Cielo tutte le perso­ne, ma se saranno buone». Però le persone non vollero essere buone e invece di andare in Cielo andavano quasi tutte sotto terra, dove abita il de­monio e dove c'è fuoco che brucia i cattivi.

Gesù, che è tanto buono, rimase così addo­lorato per quella gente che voleva essere cattiva, che è venuto giù dal Cielo a chiedere a tutti di essere buoni.

Ma la gente non volle ascoltare Gesù, lo percosse, mandò dei soldati a legarlo e lo fece morire, inchiodandolo su di una grande croce.

Gesù morì, ma poi è diventato vivo un'al­tra volta ed è ritornato in Cielo. Siccome Gesù è buono e voleva molto bene a quei cattivi, ha detto: «Non importa; tutti coloro che, come Cecilia, vógliono essere buoni, io li porterò ugu­almente in Cielo, dove vi sono tanti angeli che volano come farfalle»".

La signora, prendendo in mano l'acqua­santino, continuò: “E questa bella fanciulla è la Mamma del buon Gesù. E' buona come suo Figlio ed è andata con Lui in Cielo.”

Così terminò quella lezione di catechismo che si scolpì nella mia anima infatile e che, per tre anni, mi fu guida nelle mie azioni.

Il buon Dio ricompensi la buona signora per la bella e salutare lezione!

Sentivo una grande pena per il Fratellino Gesù, che appresi ad amare ed a cui mi sforzai di piacere, sebbene cadessi poi in tanti difetti che mi pare non fossero volontari.

Il povero Fratellino Gesù, inchiodato su quella croce nera, ebbe da quel giorno su di me una grande attrattiva e una profonda influenza.

Sentivo di volergli tanto bene e, parecchie volte al giorno, ma soprattutto sull'imbrunire, andavo a prostrarmi davanti a quel mobile affin­che Gesù non rimanesse solo e non avesse paura dei soldati che lo avevano trattato così male.

CAPITOLO 3°

CARNEVALE DEL 1905

Il suo Angelo Custode la libera da una mschera "orribile dagli occhi fulminanti", che fugge squagliandosi tra la folla.

E' questo il primo ricordo della presenza attiva del suo Angelo, del quale non sapeva ancora nulla, non avendo allora neppure cinque anni: solo a scuola, dopo i sei anni, sentirà par­lare dell'Angelo che si chiama Custode.

Per il carnevale del 1905 la mamma ci aveva preparato un bel costume; un pomeriggio, io ed altre bimbe, guidate dalle due governanti, uscimmo a fare un giro per le vie.

Io avevo un vero terrore delle maschere: pensavo che fossero esseri soprannaturali che abitavano sottoterra, in quel luogo pieno di fuoco. ! Credo che fosse quella la prima volta che accom­pagnai le mie sorelle ad una festa di carnevale. Lo schiamazzo della piazza, le maschere danzanti, mi impressionarono troppo. Penso che sia stata una grazia se la paura non mi fu fatale. Mi aggrappavo alle compagne le quali, al contrario, pareva godessero un mondo per lo spettacolo. Le governanti non si interessavano affatto di noi, assorbite dal divertimento.

Ad un certo momento mi impressionai a tal punto da risolvermi a fuggire. Non riflettei che non conoscevo la strada per ritornare a casa: andarmene era l'unica preoccupazione.

Mi lanciai di corsa verso la piazza che, es­sendo io tanto piccola, era per me un mondo sconfinato. Ricordo che piansi, ma solo per la paura che mi assassinassero...

In quella angoscia, mi ricordai del Fratel­lino Gesù che avevo lasciato solo e mi spiacque di non averlo portato con me. Però sapevo che Egli vede tutto e mi vedeva così sola.

Fu proprio allora che una maschera orribi­le, dagli occhi fulminanti, il cui ricordo ancor oggi mi sta nell'immaginazione, mi si avvicinò e mi prese per mano.

Mi parve di morire! Feci alcuni passi con­dotta da quella mano e senza veder nulla, quando sentii, come sentivo la maschera, l'Angelo che avevo veduto in casa del capitano Bezzerra, e che il Fratellino Gesù mi inviava per condurmi a casa e farmi rimanere con Lui.

Sentivo l'Angelo realmente, senza vederlo, ma come se lo vedessi. La maschera mi lasciò libera bruscamete; si squagliò tra la folla e non la vidi più. Al terrore seguì una tranquillità dolce e serena con un atteggiamento di abbandono assoluto al mio Angelo. Stavo allo sbocco della piazza quando vidi la governante venirmi incontro. Se l'avessi vista prima di sentire l'Angelo, le sarei andata incontro con la stessa ansia che mostrava lei sul viso. Ma la mia calma, forse, la rasserenò. Nessuno seppe mai nulla di quanto era accaduto. Da quel giorno di feb­braio o marzo del 1905, il mio buon Angelo mi accompagnò sempre; e con me faceva la guardia d'onore al Fratellino Gesù posto sul mobile.

Grazie a questa presenza, non mi faceva più paura il buio, poiché sentivo l'amabile e tranquil­lizzante compagnia del caro Amico. Ai miei sei anni seppi che si chiama Angelo Custode.

Egli mi parlava senza farmi udire la sua voce ed io lo intendevo.

Caro Amico! Fa' che, ricordando quanto hai fatto per me, io ti ami sempre più. Se non ci fossi stato tu, mio custode fedele, chissà quante volte io avrei offeso volontariamente, grave­mente forse, il mio Dio!

Infatti molto spesso, trascinata dai miei capricci e dalle mie tendenze, mi vidi sul punto di fare il male; ma proprio allora mi arrivava in tempo il tuo consiglio che mi impediva di errare.

CAPITOLO 4°

IL SEGRETO DEL MIO CESTINO

Commovente affetto, tenerezza verso Gesù, il suo Fratellino crocifisso, che riconosce incon­sciamente come Colui che le ha mandato l'Angelo Custode: "che mi aveva dato il mio Angelo" dice infatti.

Un pomeriggio, subito dopo quel famoso carnevale, udii da papà che saremmo partiti per il mare. Il giorno dopo, la mamma e la gover­nerete cominciarono i preparativi per il viaggio. Al mare! Il solo pensiero mi entusiasmava. Sarebbe venuto anche il mio Angelo con me, lo sapevo. Sarebbero venuti tutti quelli di famiglia, eccetto papà, occupato nella caserma; e la casa sarebbe rimasta chiusa.

Io pensavo a questo mentre componevo nel mio cestino l'orsacchiotto di feltro e la bambola, che non vi stava se non seduta.

Improvvisamente la mia grande gioia si cambiò in amara tristezza perchè persino l'orso sarebbe venuto mentre il Fratellino Gesù, che mi aveva dato il mio Angelo, sarebbe rimasto chiuso in casa solo e al buio.

A quel pensiero decisi dentro di me di ri­manere con Lui. Ma la mamma l'avrebbe con­sentito? No, certamente!

"E se invece dell'orso e della bambola por­tassi Gesù, il Fratellino?" mi domandai allora. Veramente la governante mi aveva conse­gnato il cestino per l'orso e la bambola, ma non era poi necessario che io svelassi quanto facevo. Neppure lo si esigeva.

Andai senz'altro in camera, trascinai una sedia presso l'armadio e presi il crocifisso. Tolsi dall' attaccapanni il mio mantello e avvolsi quel­la croce che mi piaceva tanto.

Così il Fratellino Gesù partì anche Lui per il mare. Nel viaggio non mi separai mai dal cestino. Appena giunti, lo posi vicino al mio letto, dove rimase sino alla fine.

La mamma e la governante non seppero mai ciò che avevo fatto.

CAPITOLO 5°

A SCUOLA

Descrizione viva, con pennellate essenziali, di quanto la colpisce all'entrare nel nuovo am­biente: le suore con una croce sul petto, ma senza il Fratellino Gesù, un grande crocifisso appeso ad una parete, che le suscita molta pena; poi, nella sua aula, la gioia di trovare "un quadro grande con un bell'Angelo Custode".

Ricordo ancora il mio primo giorno di scuola. Vi erano con me le mie due sorelle. Ci accompagnò nell' aula suor Eugenia e ci mise nel primo banco. Quante domande ci fece!

Io ero ammiratissima perchè non avevo mai visto una suora. Credo che non mi sfuggì nulla di quanto disse e fece. Ciò che più attirò la mia attenzione fu la croce nera di stoffa che essa aveva sul petto, ma senza il Fratellino Gesù.

Vi era però, appeso ad una parete di quella sala, un Gesù della mia grandezza. Ah, le sue mani e i suoi piedi erano inchiodati e sul petto rosseggiava una larga ferita!

Sentii una grande pena e non potei tratte­nere il pianto. Eugenia attribuì quelle lacrime alla lontananza della mamma e del papà e cercò di consolarmi. Intanto giunsero molte bambine e i banchi si riempirono. Tutte facce sconosciute.

Ad un certo momento suor Eugenia mi accompagnò in un'altra aula, mentre le sorelle se ne rimasero nella prima.

Alla cattedra stava seduta una suora molto giovane, con la croce di stoffa sul petto. Sulla parete pendeva pure un grande Gesù crocifisso. In più (oh, la gioia che ne provai!) un quadro grande con un bell'Angelo Custode.

La mia maestra si chiamava madre Raffaella. Mi fece sedere nel primo banco. L'Angioletto Custode era al mio fianco: non era necessario che lo cercassi.

Timida per natura, rimasi quieta per tutto il tempo. In verità la scuola mi piacque e mi piac­quero anche quelle signorine che papà mi aveva detto di chiamare "suore".

In poco tempo imparai 1e orazioni ed anche quella all'Angelo. Fu suor Paolina ad insegnarci che il nostro Angelo si chi "Custode."

Madre Raffaella ci parlò anche di Gesù, il cui nome io conoscevo già. Ci parlò dell'anima, del peccato, del cielo e dell'inferno.

Fissai tutto ciò che la mia mente piccina poteva fissare; del resto, si sarebbe incaricato il mio buon Angelo.

CAPITOLO 6°

PICCOLA OSTIA BIANCA CHE INCANTA

Comincia a sentire la sete di Gesù Eucaristia, sete che si fa sempre più ardente, mentre cresce l'orrore al peccato, anche alla più picco­la mancanza.

Ciò che mi impressionò molto (a scuola) fu l'udire la buona Madre parlarci della "santa, piccola Ostia bianca", che è il buon Dio, lo stes­so Gesù che visse e morì qui in terra.

Pensai subito: "Oh, se potessi avere Gesù nascosto nell' Ostia! Come lo cambierei con il crocifisso che è solo un suo ritratto, per avere con me Gesù vivo nell'Ostia!"

Da allora sentii di amare tanto la santa Ostia bianca. Attendevo solo i giorni festivi per andare a pregare davanti all'Ostia bianca del­l'altare, insieme alle suore e alle altre bambine.

Dopo alcuni mesi (di scuola) io sapevo già leggere da sola.

Un giorno venne nella nostra aula suor Irene e disse: "Chi non ha fatto la prima Comunione alzi la manina."

Ebbi un tuffo di gioia al cuore. Avevo già sentito parlare di prima Comunione. Il buon Gesù nel mio cuore... sarebbe stato mio... sem­pre con me! Fu ciò che mi passò allora per la mente. Nient'altro. Alzai anch'io la mano. Madre Raffaella me la prese stretta nella sua... la agitò un poco con tenerezza... e parlò con suor Irene.

"Cecilia è ancor tanto piccola; aspetterà ancora un anno; anche papà non permettereb­be!" Quindi, rivolta a me, la buona Madre disse: "Però puoi andare anche tu con suor Irene e le altre bambine". Con ciò mi dava solo il permes­so di assistere alle lezioni.

Che delusione sentii nel cuore! Rimasi tanto triste che per la prima volta mi sentii infe­lice.

Io pensai tra me: "Suor Irene consentiva che io ricevessi Gesù, tanto è vero che mi aveva detto di chiedere il permesso a papà. Però madre Raffaella, che mi vuole assai più bene, non con­sente che io faccia la Comunione!" Che dolore grande io provai per questa constatazione!

Mi lamentai subito nel cuore col mio An­gelo Custode, che era là vicino a me; egli ascol­tava tutto, silenzioso, quieto, impassibile.

Mia cara madre Raffaella! E' questo l'uni­co lamento che posso fare di lei durante gli undici anni che l'avvicinai. Lamento ingiusto, forse, perché allora non comprendeva le sue sante intenzioni questo cuoricino che già voleva tanto bene all'Ostia bianca che ella mi insegnò ad amare.

Andai sempre alle lezioni di catechismo di suor Irene. Giorno dopo giorno sentivo più forte il desiderio di ricevere Gesù.

Avevo sempre più orrore per il peccato che offende e rattrista il buon Dio.

Da allora, ogni giorno nell'alzarmi al mat­tino, incominciavo a pregare così il mio buon Angelo Custode: "mio santo e caro Angelo Custode, custodiscimi in questa giornata affin­chè io non faccia rattristare il buon Dio. Così sia."

Questa orazione composta da me la recitai per tutta la mia vita dal giorno in cui suor Irene ci raccontò come Gesù morì per i peccati di tutti. Ricordo che in quella occasione si stampò nella mia anima questo pensiero:

"Ogni peccato che noi facciamo è una gran­de spina che si infigge nel capo di Gesù." E quest'altro: "Riceviamo Gesù e poi, se commettiamo un peccato, Lo cacciamo a spintoni fuori dal nostro cuore e permettiamo che il demonio prenda il Suo posto."

Chissà quante volte fui sul punto di con­figgere spine nel capo santo del Signore! Però il mio buon Angelo Custode giunse sempre in tempo per impedirmelo. Per questo motivo nac­que in me una dolce confidenza, con una grande sicurezza nella sua assistenza e nel suo aiuto.

CAPITOLO 7°

LE PESCHE

L'intervento sensibile del suo Angelo le impedisce di rubare delle pesche.

Subito, amaro pentimento per la "acuta spina" che stava per configgere nel capo di Gesù. Ogni cosa cattiva fa soffrire Gesù.

Un pomeriggio, in compagnia delle mie so­relle, di alcune amiche e delle governanti, uscii per fare una passeggiata in campagna. Acacia aveva il denaro per comprare delle pesche e noi portavamo i cestini. Ci guidava un appuntato di papà.

Arrivammo ad una casa colonica. Ci rice­vette un uomo con la zappa sulle spalle. Mentre questi, deposta la zappa, raccoglieva la frutta e parlava con i più adulti, le mie amiche racco­glievano per conto loro pesche e susine sino a riempire i loro cestini. Solo il mio era vuoto. Quando mi avvidi del loro bel raccolto, mi accorsi pure che dietro di me vi era un pesco dai rami talmente carichi che, per il peso, scendeva­no quasi a terra.

Perchè non coglierne anch'io?

Stesi la mano... Le mie dita sfioravano già la frutta vellutata, quando sentii l'avvertimento soa­vissimo del mio Angelo Custode. Il mio braccio alzato fu trattenuto e obbligato ad abbassarsi da una "mano invisibile"; invisibile sì, ma realmente sentita, come se una persona presente mi avesse toccato. Comprendevo meglio e più chiaramente la voce del mio bell'Angelo Custode che non quella delle suore che io vedevo e che mi parlavano.

Mi pentii subito vivamente del brutto pec­cato che ero stata sul punto di commettere e mi assalì una grande pena per il buon Gesù, nel capo del quale stavo per configgere una acuta spina.

Alla notte, a letto, piansi amaramente e chiesi perdono a Gesù, alla Madonna e al mio buon Angelo Custode.

CAPITOLO 8°

COSA E' UNA BUGIA

Subisce un danno da parte di una compagna.

Viene accusata ingiustamente; non accusa la vera colpevole e, per l'intervento dell'An­gelo, reprime il desiderio di vendetta, che pure le nasce veemente.

Ogni pomeriggio, con Acacia, le sorelle e le fanciulle del vicinato, si andava alla latteria a comprare il latte per la merenda. Ognuno di noi portava il suo bicchiere avvolto in un tovagliolo. Il mio bicchiere era di color verde, con un ma­nico dorato e costellato di stelline.

Franceschina, una delle compagne a cui piaceva il mio bicchierino, mi disse: "Dammi il tuo bicchiere e prendi il latte nel mio". Inter­venne Acacia dicendo: "No, bambina, ciascuno deve usare il proprio".

Franceschina non aprì bocca e parve per­suasa.

Si andò oltre... e, dopo aver sorpassato quasi un isolato di case, Franceschina si voltò verso di me e, con uno strappo improvviso al mio tovagliolo, me lo buttò a terra col bicchiere che andò in pezzi.

Con la stessa rapidità corse da Acacia che ci seguiva da lontano e disse: "Ha visto? Ce­cilia, furiosa perchè non le ha concesso di scam­biare il bicchiere col mio, lo ha buttato per terra e l'ha fatto a pezzi".

La governante, naturalmente, si indignò contro di me e mi rimproverò: "Brava! Belle cose si fanno! Per castigo non prenderai il latte; mentre le altre faranno merenda, tu rimarrai a guar­darle con i cocci in mano". Lì per lì non seppi spiegarmi la mossa di Franceschina, tanto era stata rapida; ma, istantaneamente, si sprigionò in me un moto di indignazione col desiderio vee­mente di fare a lei quello che aveva fatto a me.

Intervenne il mio buon Angelo Custode che mi impedì di muovermi, proprio come ave­va fatto per impedirmi il furto delle pesche. Nello stesso tempo udii chiaramente, ma dentro l'anima, l'insegnamento del mio buon Angelo. Allora capii. La povera Franceschina ave­va fatto due cose cattive: la prima, l'avermi rotto il bicchiere; la seconda, l' aver detto una bugia. Aveva mentito ad Acacia e questa aveva creduto che le cose si fossero svolte proprio così come Franceschina le aveva raccontate. Com­presi bene cosa significa dire una bugia: io rompo un bicchiere e dico alla mamma che non sono stata io.

Giunte alla latteria, mi dimenticai di dire alla governante che non ero stata io a rompere il bicchiere; non so perchè non lo dissi. Ma là vici­no c'era il mio buon Angelo Custode e io rispet­tavo la sua presenza più di quella delle suore stes­se, che erano per me l'autorità suprema.

Acacia però, che mi voleva bene, mi fece prendere il latte nel bicchiere di mia sorella.

In questo modo, come narrai, il mio buon Angelo Custode mi impedì di commettere il brutto atto della vendetta.

Mio santo e fedele Custode, se volessi nar­rare tutto quello che facesti, non basterebbe un libro voluminoso.

CAPITOLO 9°

ROSE BIANCHE PER LA MADONNA

Ansiose invocazioni all'Angelo Custode e un voto alla Madonna, per ottenere di fare la prima Comunione, sebbene troppo piccola. Aggiunge anche un sacrificio.

È un bell'esempio di preghiera di supplica. Era alle porte l'ottobre e io non avevo altro pensiero che la mia Comunione.

Varie volte suor Irene mi aveva detto di parlare alla Madre, ma la risposta era sempre stata evasiva: nè un sì, nè un no.

E' vero che il mio fisico era di una bimba di quattro o cinque anni, ma credo che la ragio­ne dell'impedimento fosse piuttosto la mia in­fantilità di spirito.

Tuttavia io sapevo benissimo che cosa fosse la piccola Ostia Santa e l'amavo tanto: la piccola Ostia era Gesù; come non avrei dovuto amarlo?

Se la mia buona madre Raffaella avesse saputo che ogni notte sprofondavo il mio volto nel guanciale per singhiozzare dal dolore! Se l'avesse saputo! Invece dovevo rimuginarmi quel desiderio insoddisfatto.

Il mio buon Angelo Custode era il mio unico confidente. Egli era sempre lì vicino a me, sempre sveglio perché non aveva mai sonno, e io lo sapevo bene: a qualsiasi ora della notte io mi svegliassi, egli era sempre al mio fianco.

Mi sedetti molte volte sul mio letto per rac­contargli il motivo del mio pianto e concludevo sempre supplicandolo di chiedere egli stesso a madre Raffaella il gran favore per me... "Certa­mente - gli dicevo - se tu chiedi, lei non dice di no." E così, con la speranza che la Madre mi desse il permesso desiderato, mi addormentavo. Una notte, piangendo, mi sedetti sul letto per ripetere al mio buon Angelo Custode le mie lamentele, ma affiorò improvvisa un'idea: perchè non chiederò la grazia alla Mamma Santa di Gesù, alla Mamma del Cielo, come dice suor Irene? Lei darà ordini certamente anche a madre Raffaella. Il giorno seguente, appena mi svegliai, balzai dal letto e corsi presso il cassettone che, dalla camera della mamma, era stato spostato in quella vicina alla mia.

Non ero ancora cresciuta abbastanza per arrivare al suo piano levigato, però, anche da terra, vedevo bene 1'acquasantino su cui era l'immagine dell'Immacolata.

Ricordo ancora oggi l'orazione che improv­visai: "Mia cara e buona Madonna, ho tanto desiderio che il tuo Figlio Gesù venga ad abitare anche nel mio cuore. Però madre Raffaella non mi vuol dare il permesso di riceverlo perchè, come dice, io sono troppo piccola. Fammi Tu crescere un poco, oggi stesso e dà ordini alla Madre che guardi bene la mia statura. Io ho un salvadanaio con alcune monete d'argento per comprare il bambolotto della vetrina della bottega dei bambi­ni. Con quel denaro, invece del bambolotto, com­prerò per Te un grosso mazzo di rose bianche che porterò sul tuo altare della chiesa... ma a condizio­ne che madre Raffaella mi accontenti. Così sia."

Il mio buon Angelo Custode era al mio fian­co e io capivo benissimo che egli pure voleva che Gesù venisse nel mio cuore. Dopo quella preghie­ra ritornai nella mia camera. Arrivò quasi subito la governante e mi preparai per andare a scuola.

Mi parve che in quel giorno madre Raf­faella non vedesse che ìo "ero cresciuta". Infatti non disse nulla (mi ero persuasa che la Madonna, dopo la mia orazione, mi avesse fatta crescere davvero).

Per alcuni giorni madre Raffaella non en­trò in quell'argomento e ciò mi faceva meravi­glia; allora risolvetti di ripeterle io la richiesta.

Dopo la lezione mi fermai alla porta dove lei doveva passare. Il mio cuore batteva forte! Mi pareva che non avrei potuto parlare. Ma il mio buon Angelo Custode era là con me e mi avrebbe insegnato a chiedere tanto favore.

Non fu necessario dir nulla perchè la Ma­dre mi prevenne dicendo: "So già quello che Cecilia vuole. Facciamo così: se il papà permet­te, anch'io ne sarò ben contenta."

Se il grande rispetto che sentivo per la buona Madre non mi avesse trattenuta, avrei fat­to con lei come ero abituata a fare con papà e mamma: l'avrei abbracciata e accarezzata con tanto affetto.

Ma le dissi solo: "Va bene, Madre! Tante grazie!"

Quanto a papà, sapevo benissimo che avreb­be fatto e permesso tutto per me. Contento papà, anche la mamma sarebbe stata contenta. In verità, avvenne proprio così.

Siccome quel pomeriggio non potevo or­mai più recarmi dalla fioraia perchè troppo tar­di, corsi subito dalla Madonna a dirle che avesse pazienza fino al giorno dopo per avere i fiori.

Presi l'acquasantino e baciai ripetutamente l'immagine della Madonnina per dirle il mio gra­zie per avermi fatta crescere un poco (Non so dav­vero se fossi cresciuta o no; ma io ne ero convinta e attribuivo a ciò il permesso di madre Raffaella). Il giorno seguente compii il mio voto. Aca­cia mi accompagnò dalla fioraia. Le dissi soltanto che volevo rose bianche da deporre in chiesa davanti alla Madonna. Ella voleva mettere nel mazzo altre rose molto belle ma di colore, con la scusa che avrebbero figurato meglio. Dovetti insi­stere, ma vinsi. Nelle mani della fioraia lasciai tutti i denari che formavano la mia fortuna.

Un sacerdote che trovai nella chiesa pose il bel mazzo bianco sull'altare. Mi sentivo feli­ce, troppo felice.

Quella notte, seduta sul mio letto, non mi lamentai più col mio buon Angelo Custode, ma gli domandai se la Madonna era rimasta conten­ta delle belle rose.

Intanto il mio salvadanaio era vuoto, e io sarei rimasta senza il bambolotto che desideravo tanto. "Pazienza! - pensai - comincerò a mettere insieme tutto il denaro che papà mi darà e ser­virà per la compera del giocattolo."

Quella stessa notte pregai il mio buon An­gelo Custode che non permettesse a nessun'altra bambina di comprare quel bambolotto, finchè non avessi il denaro per comprarlo io.

Quando il mio salvadanaio conteneva già un bel gruzzolo di monetine d'argento, lo svuotai di nuovo; ma non fu già per comprare il bam­bolotto: servì per un'altra spesa che mi portò tanta gioia, come quella delle rose bianche. Ne parlerò più avanti.

CAPITOLO 10°

LA PRIMA CONFESSIONE

Grande emozione e zelo per fare bene, molto bene e in modo completo la sua prima confessio­ne; invocazione di aiuto all'Angelo Custode.

Passarono alcuni giorni ancora.

Grazie alle spiegazioni di suor Irene, sape­vo benissimo quello che dovevamo fare per pre­parare il nostro cuoricino alla visita di Gesù.

Aspettavo ansiosamente la prima confes­sione per far più bianca la mia anima; più bianca del vestito candido che la mamma aveva già or­dinato.

Giunse finalmente il grande giorno.

Già alla vigilia, suor Irene, molto zelante, ci radunò in un'aula e ci distribuì un foglio di carta. Insegnatoci il modo di cercare i peccati (da scrivere sul foglio) servendoci del formula­rio che vi era nell'appendice del "Catechismo", ci lasciò pensare, mentre ella se ne stava seduta alla cattedra.

Il mio buon Angelo Custode era lui pure vicino a me, ma non diceva nulla. Io pensavo: "Almeno potessi trovarmi sola con lui!"

Lidia, una delle mie compagne che era al mio fianco, non stava quieta. Sovente, puntando col dito un peccato elencato nel Catechismo, mi domandava: "Cecilia, e questo peccato tu lo scri­vi?" Io le rispondevo a mia volta: "Suor Irene spiegò che i peccati li dobbiamo dire solo al con­fessore. "Ma - soggiungeva Lidia - io lo scrivo, così la lista è più completa."

Mi pare che suor Irene avesse notato l'irre­quietezza di Lidia, perchè ad un certo momento la tolse da vicino a me e la mise in un altro banco.

Ne fui felice, perchè sarei rimasta sola con il mio buon Angelo Custode. Pensai, ripensai; chiesi al mio buon Angelo che mi aiutasse a fare una buona confessione.

Dopo di aver letto i peccati contro ogni Comandamento, riflettei: "Qui vi sono tanti pec­cati che io ho fatto, altri non so, alcuni non li comprendo neppure... Ma quante spine nel capo di Gesù!"

Sentii una grande compassione per Lui e, nel desiderio santo di consolarlo, gli promisi fa­cendo grande sforzo per non piangere: "Mai, mai più! Non voglio più esser cattiva! Non voglio più fare nemmeno un peccato; dentro di me sento qualche volta la voglia di far peccati, ma il buon Angelo Custode non mi lascia cadere. Voglio essergli sempre ubbidiente."

Suor Irene che ci assisteva si avvicinò a me e mi disse: "Cecilia, le altre sono quasi pron­te e tu non hai ancora cominciato."

Allora cominciai, ma con la risoluzione di trascrivere tutti i peccati del "Catechismo", come la pensava Lidia: "Il Signore sa i miei peccati e anche quelli che non ho fatto. Così nel mio cuore non rimarrà più nulla, neppure un'ombra e la mia anima diventerà bianca come la Santa Ostia che riceverò."

Terminato di scrivere, suor Irene piegò i nostri fogli poi li ripose in altrettante buste che sigillò bene. Sopra ad ognuna ci fece scrivere il nostro nome e le ritirò per restituirle prima della confessione.

Andai a casa, ansiosa per il giorno seguente. Finalmente giunse il grande momento. Non so dire tutti i sentimenti che provai.

Ci si avvicinava al confessionale in modo ordinato e al cenno di suor Irene. Il mio buon Angelo Custode era lì vicino a me e mi avrebbe accompagnata ai piedi del confessore.

Ripetei varie volte l'atto di contrizione con grande, con grandissima pena per essere stata tanto cattiva con il Fratellino Gesù.

Venne il mio turno. Tenevo nelle mani il foglio pieno zeppo di peccati, che erano le gran­di spine con cui avevo trafitto il capo di Gesù.

Mi accostai al confessionale con il cuore che batteva affannosamente. Desideravo tanto confessarmi! Cominciai a leggere, a leggere sen­za tregua. Improvvisamente il sacerdote mi inter­ruppe e mi chiese il foglio. Glielo consegnai e non lo vidi mai più. Feci il resto della confessio­ne senza il foglio; il sacerdote interrogava e io rispondevo.

Anche senza foglio, che prima mi pareva indispensabile, so che feci un'ottima confessio­ne perchè sentii nel cuore una gioia così grande come mai avevo provato prima di allora.

Uscendo dal confessionale capii che il sacerdote rideva e io mi rallegrai maggiormente perchè pensai: "Anche lui gode della mia gioia." Solamente più avanti negli anni capii che ero stata sempliciona.

Giunta a casa, non andai a giocare sul mar­ciapiede come ero solita e neppure volli recarmi alla latteria dove mi piaceva tanto trovarmi (con le amiche). Temevo di macchiarmi l'anima anche solo leggermente... Macchiarla, ora che era bella come il velo, candida come il vestito e la corona di fiori che avevo? Mai più!

Passai il resto del pomeriggio seduta sulla sedia a sdraio, vicina all'armadio, a ripetere tante volte l'atto di dolore.

Nessuno si interessò di me, eccetto il mio buon Angelo Custode. Neppure lui in quel gior­no andò alla latteria.

Acacia mi servì ugualmente il latte in una tazza azzurra, su cui era dipinto un agnellino; tazza che la mamma mi aveva comprato dopo l'incidente del bicchiere infranto.

CAPITOLO 11 °

LA PRIMA COMUNIONE

Giorno della prima Comunione: giorno "infinitamente bello!"

Sperimenta in sé "realmente e vivamen­te "la presenza di Gesù. Lo sente, ma "non come sentivo il mio Angelo"...

L'unione è più profonda, più intima, comple­ta: "due anime in una, due cuori in un sol cuore". Fa poi il suo primo ed unico giuramento: "Mio caro e buon Gesù, Ti giuro che non voglio commettere mai più nessun peccato".

Il 17 ottobre! La grande data si avvicinava. Ci confessammo una seconda volta; ma su­or Irene quel giorno mi fece questa raccomanda­zione: "Guarda, Cecilia, che dobbiamo confessa­re soltanto i peccati che abbiamo commessi e non tutti quelli del Catechismo". In verità io lo sape­vo, ma credevo che fosse meglio confessare tutto; tuttavia a suor Irene non dissi nulla.

La suora si prese di noi la maggior cura. Quando rientrai in casa, rimasi sempre sulla sedia a sdraio a prepararmi sulla preghiera da pre­gare in comune prima e dopo la visita del Signore.

Non sapevo ancora leggere speditamente nè senza accompagnare le parole del libro col ditino; questo la suora non lo voleva, ma io vo­levo pregare bene senza alcun errore, per piace­re a Gesù.

Il libro era intitolato: "La chiave del Cie­lo". Aveva il labbro dorato; era stato il dono della mia buona madre Raffaella. Ella stessa aveva scritto in prima pagina: "Ricordo della tua amica madre Raffaella".

Lo conservai per parecchi anni, finchè lo donai alla mia sorella Adele, dopo aver incollato le pagine dove era scritta la dedica che stimavo tanto. Me ne privai con sacrificio.

Come se la buona Madre avesse indovinato la gioia che mi avevano procurato quelle parole, quando compii i miei 18 anni mi offrì un'immagi­netta su cui le riscrisse. Le conservo ancor oggi come gradito ricordo.

Presenza sensibile di Gesù
Finalmente giunse il 17 ottobre, il giorno infinitamente bello, il giorno in cui conobbi da vicino, anzi dentro di me, il mio buon Gesù, il Fratellino che avevo conosciuto nel quadro della stanza della mamma e nel caro Crocifisso sul grande armadio.

Fu la prima volta, mio Dio, che sentii real­mente e vivamente in me stessa la tua santissi­ma Presenza!

Era così che io Ti aspettavo, proprio come Ti sei fatto conoscere all'anima mia, o mio Gesù! Non mi ero ingannata. Sapevo che Ti avrei senti­to in me stessa, non come sentivo il mio buon Angelo Custode, ma come se Tu, mio Dio, fossi me stessa e come se io fossi Te. Tu in me e io in Te. La tua Anima nella mia anima, il tuo Cuore nel mio cuore! Due anime in una! Due cuori in un sol cuore!

Il grande Dio onnipotente e la sua piccola e debole creatura!

Come Ti abbia amato in quel momento e come Tu mi abbia amata, non lo so descrivere. Soltanto noi: Gesù e la sua piccola Cecilia, lo possiamo sapere.

Giuramento di fedeltà
Nel santo giorno della prima Comunione, 17 ottobre 1906, appena ritornata a casa, avendo con me il mio buon Angelo Custode e portando nel modo più intimo il Grande e Divino Ospite, desiderai ardentemente chiudermi nella mia ca­meretta e rimanere lì sola col mio Dio. Avevo tante cose da dirgli, da chiedergli ! Volevo stringerlo al mio cuore e fargli tante promesse, tante proteste d'amore.

Ah! Ma Acacia mi attendeva già per con­durmi a casa della nonna e della madrina. Do­vetti ubbidire; ma ritornai assai in fretta, il più presto che mi fu possibile.

Dopo che la governante mi ebbe tolto il velo ed il vestito, me ne mise un altro delle feste, dietro mia richiesta, perchè pensavo: "Io porto con me un Grande Ospite."

Poi corsi subito in camera; mi misi grave e quieta sulla seggiola ad amare, ad amare molto il mio Dio.

Mi abbracciavo da me stessa, perchè in me abbracciavo Gesù. Con linguaggio infantile gli feci mille promesse di amore e di fedeltà. Sapevo bene che Gesù mi comprendeva, tanto meglio di mamma e papà.

Io Lo sentivo in me, ma non conce l'An­gelo Custode. Era come se io stessa fossi Gesù. Egli, il mio Divino Ospite, mi ascoltava senza stancarsi. Senza udire la sua voce, ascoltavo attentamente e con molto amore quello che Gesù voleva dalla sua piccola ancella: "Non far mai, mai, neppure un solo peccato, affinchè Gesù neppure una volta, neppure per un istante si separi da te".

Ad un tratto mi alzai e, postami in ginocchio, feci coi due indici una croce e la baciai dicendo con fermezza:

"Mio caro e buon Gesù,Ti giuro che non voglio commettere mai più nessun peccato".

Fu il primo e l'unico giuramento che feci nella mia vita. Non so se comprendevo il grande obbligo che mi assumevo. So unicamente che giurai, mossa da un incontenibile desiderio di non offendere il mio Dio.

Non svelai mai fino ad oggi questo segre­to. Lo feci con Gesù dentro di me e col mio buon Angelo Custode al fianco.

Gesù accettò e racchiuse nel suo Cuore divino il giuramento di una debole creaturina.

CAPITOLO 12°

IL PRIMO ROSARIO
I suoi primi slanci d'amore alla "Mamma del Cielo" si manifestano con l'entusiasmo col quale prega il suo primo Rosario, usando una collana in mancanza della corona (collana che prima benedice); dimostra così di cogliere la sostanza delle cose, non preoccupandosi della forma esteriore.

Sino allora conoscevo ben poco la Mamma di Gesù. Però, dopo il fatto delle rose bianche e di aver ottenuto da Lei la gioia della prima Co­munione, per una grazia grande del buon Dio, incominciai ad amarla di più, molto di più. Dopo la preghiera "Ave Maria" imparai da madre Raffaella quest'altra:

"Ricordati che ti appartengo, o dolce Madre, o Signora nostra! Ah, vegliami e difendimi

come cosa proprio tua."

Pregai sempre questa orazione, al mattino e alla sera, sino a quando entrai in Convento. Imparai anche a fare piccoli fioretti in suo onore. Provai poi una grande gioia quando madre Raffaella ci insegnò a pregare il Rosario. Il libretto "La chiave del Cielo" spiegava il modo di meditare sui misteri.

"Che bellezza! - pensavo durante la lezione di religione - appena sarò a casa pregherò il Rosario e insegnerò a pregarlo anche a Cipriano", il buon vecchietto del Ricovero dei poveri, che visitavo sovente.

Tornata a casa, la governante avrebbe do­vuto farmi il bagno e papà – che - fu sempre il mio buon aiutante fino ai dieci anni - avrebbe dovuto aiutarmi nei miei compiti. Invece, sia l'una che l'altro, in quel giorno non erano in casa. Decisi allora di pregare il Rosario.

Presi "La chiave del Cielo" e mi misi pres­so il grande armadio, davanti alla statuetta della Madonna. Solo quando ero già in posizione di preghiera, mi ricordai che non avevo la corona. Fu una scoperta amara.

Mi venne in mente però subito che Acacia aveva una collana di coralli azzurri che pareva un Rosario. Non esitai un istante e corsi a pren­derla; le mancava solo il crocifisso, ma la Madonna sapeva tutto e non doveva farci caso.

Il mio buon Angelo Custode era là; lo sen­tivo che osservava tutti i miei movimenti e pen­sieri; e c'era anche Gesù.

Mi ricordai di aver sentito spiegare che tutti gli oggetti, come immagini, corone e meda­glie devono esser benedetti prima dell'uso; ma la collana di Acacia non era ancora sacra perchè non era benedetta.

Subito mi misi in ginocchio molto devota­mente e, con la collana nella palma della mano sinistra, tracciai su di essa con la destra un segno di croce, pronunciando con tutto il cuore le paro­le: "Io ti benedico in nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Così sia".

Questa è la storia del mio primo Rosario. Mi pare ancora oggi che la Madonna abbia gra­dito quell'orazione che le è tanto cara, sebbene detta su di una collana.

Il mio buon Angelo Custode rimase presso di me e Gesù pure; non si opposero per nulla: è segno che non disapprovarono.

Devo anche dire che poi trattai con rispetto quella collana. Anzi, siccome l'avevo benedetta, pensai che Acacia non dovesse più metterla al collo per ambizione e gliela chiesi in cambio delle monete del mio salvadanaio. Rifiutò lo scambio: mi diede senza compenso la collana e accettò solo un pacchetto di sigarette di ciocco­lata che mi era costato pochi soldi.

Alla fine dell'anno scolastico ricevetti, in premio della mia applicazione nello studio, una borsetta di seta che conteneva una bella corona bianca. Ma quella, mi disse madre Raffaella, era già stata benedetta. Fu la mia prima vera corona del Rosario.

Nel primo giorno di vacanza corsi ad inse­gnare la preghiera del Rosario al caro vecchietto del Ricovero. Avevo tentato due volte di andare al Ricovero per insegnarglielo, ma, siccome portavo la collana, il mio buon Angelo Custode si oppose entrambe le volte.

Con la bella corona bianca invece il mio buon Angelo non si oppose, anzi, mi accompa­gnò.

CAPITOLO 13°

CIPRIANO DEL RICOVERO

Con la grazia e l'ingenuità di una bimba di sei anni, compie un'opera grande nei riguardi di un vecchio del Ricovero dei Poveri: la Provvi­denza l'ha scelta come suo strumento perchè quel vecchio non muoia senza il battesimo. Penso di dover dire qualcosa del vecchio paralitico della Casa dei Poveri.

Al nostro arrivo a Santa Vittoria 5 andam­mo ad abitare in una casa di fronte al Ricovero di mendicità. Era una grande costruzione ad un solo piano, con un buon numero di camerette, in massima parte con la finestra sulla strada.

In una di queste camere, davanti alla nostra casa, abitava un vecchietto paralitico, che muove­va solo la testa e il braccio sinistro. Da casa nostra potevamo vedere il povero ricoverato semi-sedu­to, appoggiato a dei guanciali; il suo letto era presso la finestra sempre aperta.

La mamma, presa da compassione per lui, si incaricò di mandargli giornalmente la refezione.

Un giorno io accompagnai Acacia al Ri­covero. Io conoscevo il vecchietto da lontano. Lo vedevo dalla finestra di casa nostra, con la testa e la barba bianca, sempre nella stessa posi­zione. Ma in quel giorno lo vidi da vicino. Aca­cia però non mi lasciò entrare nella stanza: dovetti attenderla alla porta, a pochi passi dal lettuccio. Lo osservai attentamente.

La lunga barba, bianca come la bambagia, mi ricordava il mio "Papà del Cielo" del quadro della SS. Trinità, che non mi guardò mai triste, neppure quando, commessa qualche cattiveria, andavo a rifugiarmi nella stanza della mamma. Ah! Ma ecco ciò che dovevo ancora sco­prire nel povero vecchietto: aveva un crocifisso di metallo bianco, più lungo di un palmo della mia mano, appeso al collo con un cordoncino. Quella scoperta mi affezionò a lui e decisi di prendermi cura di lui per rendergli l'anima bianca bianca.

In quella prima visita mi causò pena il vedere che Acacia, posto il cibo sul comodino, rivolse all'ammalato ben poche parole e se ne uscì presto prendendo anche me per mano per ricondurmi a casa.

Durante la giornata il mio pensiero corse parecchie volte al poveretto. Di notte, mentre pre­gavo, dissi al mio buon Angelo Custode: "Mio caro Angelo, domani io voglio ritornare da quel vecchietto e voglio parlargli del Papà del Cielo. Ti chiedo la carità di accompagnarmi là. Non voglio andare con Acacia, perchè ha sempre tanta premura di andarsene via."

Il mio buon Angelo Custode ascoltò atten­tamente e mi fece provare nel cuore una grande dolcezza.

Prima lezione di catechismo a Cipriano
Ero in vacanza da due giorni.

Di buon mattino, dopo che Acacia era tor­nata dal Ricovero, corsi alla finestra del salotto e da là vidi il vecchietto. Provai un'onda di gioia: egli era là, come sempre, con la finestra aperta.

Infilai la strada e mi diressi al Ricovero. Mi arrampicai con fatica sul davanzale e mi misi a sedere. Il vecchietto mi osservò sorpreso per la mia strana apparizione dalla finestra. Pensai si fosse spaventato e gli dissi: "Non si spaventi: io sono la bambina che ieri venne con Acacia. Abito lì di fronte".

Il vecchietto ne fu contento. Gli chiesi che mi mostrasse la bella crocetta che aveva sul pet­to ed egli se la staccò e me la porse.

A questo punto gli ripetei alla lettera quella prima lezione che, due anni prima, avevo avuta. Il vecchietto ascoltò, ascoltò senza interrompermi mai.

Quando terminai, mi accorsi che l'ammala­to piangeva come la piccola Cecilia aveva pianto abbracciata alla signora. Poi gli chiesi che bacias­se il Gesù della piccola croce ed egli obbedì, poi se la appese nuovamente al collo.

Gli promisi quindi che sarei tornata il gior­no dopo e che avrei portato con me il piccolo acquasantino di ceramica con l'immagine della Mamma di Gesù.

Il mio buon Angelo Custode era stato sem­pre vicino a me, ma non seduto sul davanzale come me. Non ho mai sentito il mio buon Angelo Custode seduto. Credo che stesse in piedi, perchè molte volte alzai il capo, anche quando ero assai piccola, quasi per osservarlo in faccia, senza tut­tavia averlo mai visto con gli occhi del corpo.

Continua la catechesi
Il giorno seguente mantenni la mia pro­messa. Alle prime ore del mattino, subito dopo il caffè, con l'acquasantino in mano, corsi a sedermi sulla finestra della stanzetta di Ci­priano.

Gli mostrai la Madonnina e gli spiegai che era la Mamma di Gesù. Fu in quella occasione che insegnai al paralitico 1' "Ave Maria".

Ci vollero parecchi giorni per fargliela imparare. Ogni pomeriggio, dopo la scuola, verso le quattro ero là al mio posto sul davanzale. Non mancai più alla mia visita che, lo vedevo, dava tanta gioia al vecchietto.

Nelle giornate di pioggia o di freddo non mi permettevano di uscire da casa; ed allora dalla finestra del salotto spiavo da lontano il mio ormai inseparabile amico. Sentivo di voler­gli proprio bene ed avevo la certezza che egli pure me ne voleva tanto.

Passarono parecchi mesi. Il buon Cipriano aveva imparato il "Padre nostro", 1' "Ave Maria", 1' "Angelo di Dio" e il "Ricordatevi o piissima Vergine" alla Madonna. Quando poi, alla fine del­l'anno scolastico, ricevetti in premio una bella corona del Rosario bianca, la mia prima corona, andai subito a fargliela vedere, a insegnargli il modo di pregarla.

Cipriano diceva già bene 1' "Ave Maria", il "Padre nostro" e il "Gloria", ma i misteri no, per­chè neppure la sua piccola catechista li sapeva. Io li leggevo sul libretto (non so in che modo, poichè ero ancora tanto impacciata) e lui sgranava la corona.

Parecchie volte la mamma mi scoprì seduta sulla famosa finestra e mi chiamò in casa. Quanto ne soffrivo! Ubbidivo subito alla voce della mamma, ma lasciavo la corona al vecchietto dopo aver combinato con lui: "Stasera, appena si accendono le luci nelle strade, lei cominci a pre­gare sulla corona e io da là, da casa, leggerò ne "La chiave del Cielo" quello che deve pensare (meditare). La Madonna sa tutto, ode tutto e vede tutto, come il suo Figlio Gesù.

Il giorno dopo, di buon mattino, andavo a riprendere la mia corona senza la quale non potevo stare un giorno.

"Io posso battezzare Cipriano"
Una sera, mentre presso la finestra della saletta leggevo i misteri del Rosario e Cipriano nella sua stanzetta pregava con la mia corona bianca, mi assalì un pensiero che per poco, come un'ombra, mi velò l'anima: Madre Raffaella disse a scuola che chi non è battezzato non può entrare in Cielo.

Mi sgorgarono dagli occhi cocenti lacrime, perchè un'altra certezza mi si affacciò alla men­te: Cipriano, il mio povero amico, non potrà andare lassù con Gesù e la Madonna, perchè non è battezzato!

In tale perplessità alzai il mio sguardo per vedere il santo volto del mio buon Angelo Custode. Egli era là, presso di me e, senza udire con le mie orecchie la sua santa voce, lo udivo e lo comprendevo meglio di quanto comprendessi papà, mamma, madre Raffaella e Acacia.

Improvvisamente le mie lacrime cessaro­no, perchè un nuovo pensiero illuminò l'anima mia: io posso battezzare Cipriano; so come si battezza perchè madre Raffaella ce lo ha inse­gnato. So battezzare perfettamente. Nella mia fantasia riprodussi l'atto del battezzare.

"Peccato che si faccia notte!" pensai tra me. Avrei desiderato che fosse già l'indomani per poter portare al caro vecchietto la buona notizia del suo prossimo battesimo.

Il giorno dopo andai a scuola e al pomeriggio, compiuti i miei doveri scolastici, corsi al Ricovero, mi arrampicai frettolosamente sulla finestra ed esposi a Cipriano ciò che volevo fargli.

Il buon ammalato era molto docile ed ob­bediente alla sua piccola "catechista" e si mos­trava sempre pronto e contento per tutto ciò che gli chiedevo.

Quando gli dissi che per andare in Para­diso a vedere Gesù e la Madonna era necessario che lo battezzassi, egli si rallegrò tanto che dai suoi occhi, sempre velati da un'espressione di tristezza, forse per l'età e per la sofferenza, cad­dero in quel momento due grosse lacrime.

Lo consolai come potei e gli promisi un'im­maginetta della Madonna che suor Eugenia mi aveva dato, se non avesse più pianto. Subito prese da sotto il guanciale un grande fazzoletto a righe rosse e si asciugò le lacrime.

Allora cominciai subito la "mia istruzione" sul Battesimo: "Caro Cipriano, ha detto madre Raffaella che il Battesimo cancella tutti i peccati delle persone adulte. Lei è adulto. La sua anima diventerà bianca come la mia nel giorno della prima Comunione".

A questo punto, il vecchietto ricominciò a piangere.

Siccome le sue lacrime mi facevano com­passione e mi rattristavano molto, mi sforzai subito di consolarlo, anche perchè non avrei volu­to mettermi a piangere anch'io. Gli dissi subito: "Se lei piange, non guadagna l'immaginetta". Alle mie parole, riprese il fazzoletto dalle righe rosse per asciugarsi il pianto.

Preparativi per la festa
Fissai, per il Battesimo, un giorno festivo. "perchè - dissi a Cipriano - la domenica è il gior­no del Signore; io vado a Messa e rimango, così, col vestito bello per la sua cerimonia. In giorni feriali Acacia non mi mette mai i vestiti migliori e le scarpette belle".

Oggi non ricordo più il giorno nè il mese che fissai; ricordo unicamente che fu una domenica. Incominciai a darmi da fare a preparare la festa del mio poverello. Gli invitati sarebbero stati soltanto il mio buon Angelo Custode ed io. Alla vigilia, sabato, avevo scuola solo al mattino. Andai al salvadanaio e lo apersi. Oh! mancavano solo due monete d'argento a formare la somma necessaria per comprare il bambolotto nero. In quel momento sentii dentro di me la ribellione del mio egoismo e provai una grande pena a vuotare nuovamente il salvadanaio. Però vi era lì il mio buon Angelo Custode.

Alzai lo sguardo per osservarlo in volto e, senza vederlo, lo sentii e compresi subito che Egli disapprovava la mia "pena"; il suo occhio mi fissava con molta tristezza.

Risolutamente vuotai nel mio grembo le dieci monete luccicanti, nuove di zecca, che papà sceglieva apposta e conservava per me.

Mi parve allora che nulla al mondo mi avrebbe fatta pentire e retrocedere. Se qualcuno, in quel momento, mi avesse detto: "Conserva le tue monete, tienile, che avrai quel bambolotto tanto desiderato" io non avrei ceduto perchè il mio buon Angelo Custode aveva sulla mia vo­lontà una influenza maggiore che tutto il mon­do. Dovevo privarmene, e basta.

Senza dir nulla ad alcuno, neppure ad Aca­cia, con le monete in tasca andai speditamente alla pasticceria.

Il mio buon Angelo Custode non era più triste. Al ritorno, portando un bel pacchetto di dolci, confetti e cioccolato, mi sentii felice come il giorno in cui con Acacia ero passata per le vie con il mazzo di rose bianche.

Più di una volta alzai lo sguardo per osser­vare il volto del mio Angelo Custode: era ormai contento. Cammin facendo, gli ripetei più volte: "E' tutto per Cipriano! Non prenderò neppure un confetto per me. E' per festeggiare domani il Battesimo di Cipriano!"

In casa nessuno si era accorto della mia assenza. Questo non perchè io facessi qualcosa con sotterfugi, oh, no! Grazie a Dio, ho sempre fatto tutto con naturalezza; ma intendo dire che mai nessuno seppe di questi fatti.

"Cosa mancherà ancora?'', rimuginavo. Ah! ecco! "Io ho tutto nuovo e bello... Invece Cipriano per il suo Battesimo non ha nulla di nuovo e di bello". Rimasi pensosa ma per un solo istante, perchè trovai facilmente la soluzio­ne. "Siccome Cipriano è sempre a letto, gli por­terò una camicia nuova di papà, una blusetta e acqua di colonia per profumarsi bene".

Feci tutto quanto avevo pensato con la sem­plicità più spontanea. Solo più tardi, in Convento, interrogata se avevo allora chiesto il permesso a papà, rientrai in me stessa e riconobbi di aver proceduto male. Forse agii così perchè mi giudi­cavo padrona di ciò che apparteneva a papà, per­che egli mi dava tutto quello che gli chiedevo. Ero abituata a fare così; e inoltre nessuno mi ave­va mai fatto osservazioni in proposito.

Insomma: gira e rigira affannosamente, mi parve infine che tutto fosse pronto. Dopo il ba­gno, feci una scappata al Ricovero con due involti. Non mi occultai a nessuno, ma nessuno mi vide.

Salii sul davanzale a stento a causa dei due pacchi e consegnai tutto a Cipriano, raccoman­dandogli ciò che doveva fare: "Domani metterà la camicia nuova e la blusa. In questa bottigliet­ta vi è dell'acqua di colonia per profumarsi bene la faccia e le mani".

Il povero vecchio incominciò a piangere. Per consolarlo gli consegnai subito il pacco dei dolci. Con mia grande meraviglia vidi che il vecchio piangeva ancor più.

Io non capivo che quelle lacrime erano di commozione e di gratitudine; tagliai corto comandandogli in questi termini: "Adesso non si piange più, perché dobbiamo pregare per domani".

Ed egli, ubbidiente, non pianse più.

Pregai con lui tutto ciò che sapeva à memo­ria: il "Credo", il "Pater", l’Ave Maria", 1' "An­gelo di Dio", il "Ricordatevi" alla Madonna e l'at­to di dolore.

Prima di lasciarlo gli raccomandai anche di essere buono e di non guardare sulla strada. Avevo imparato questo dalle suore. Cipriano mi promise che avrebbe ubbidito.

Piccola battezzatrice
Il giorno seguente, domenica, mi recai a Messa e pregai per il vecchietto: lessi quasi tutto il libretto dal titolo "La chiave del Cielo". Senza dubbio il Signore avrà sorriso della mia semplicità. Giunta a casa, chiesi ad Acacia che non mi togliesse il vestito bello; mi voleva tanto bene che non fece difficoltà.

Mi sentivo tanto compresa del grande atto che stavo per compiere che il cuore mi sussulta­va in petto. Presi la tazza che la mamma usava per il caffé-latte e, sebbene già pulita, volli lavarla ancora; la riempii d'acqua e uscii av­viandomi verso il Ricovero.

Avrei voluto correre, ma la tazza piena d'ac­qua me lo impediva. La misi sulla finestra e mi arrampicai al mio posto solito.

Contrattempo! Speravo di trovare Cipriano tutto messo a nuovo, invece era come sempre. Non avevo riflettuto che non si poteva muovere; e quel mattino, per disdetta, non era apparso ancora nessuno per aiutarlo.

Pazienza! Guardai il mio buon Angelo Cus­tode: era contento. Perciò pensai che potevo bat­tezzare Cipriano anche se aveva la sua camicia vecchia; in fin dei conti non era poi tanto sporca!

Recitai con lui, di nuovo, l'atto di contri­zione. Ambedue, il vecchietto e io, eravamo ben compresi di ciò che stavamo per fare. Il mio buon Angelo Custode era lì anche lui.

Dissi a Cipriano di abbassare la testa; ubbidì subito. In ginocchio sul davanzale della finestra, col cuore che mi martellava, versai tutta l'acqua della tazza sul capo del vecchietto, preoccupandomi che arrivasse sino alla pelle e pronunciai contemporaneamente le parole che madre Raffaella ci aveva insegnato: "Io ti bat­tezzo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo".

Poi dissi a Cipriano: "Da questo momento lei si chiamerà Giuseppe, in onore di San Giuseppe". Il motivo che mi aveva suggerito la scelta di quel nome era questo: che il vecchietto, con la sua lunga barba, assomigliava al grande santo.

Il povero ammalato si mise nuovamente a piangere e, stringendo con la sua mano sana il crocifisso che aveva sul petto, sospirò varie volte: "Signore! Signore buono! Buon Dio!".

Non disse altro: lo ricordo perfettamente. Io mi sentivo felice, di una felicità uguale a quella della mia prima Comunione.

Osservai che il mio buon Angelo Custode era contento anche lui, molto contento.

Mi separai infine dal mio caro vecchietto dopo avergli parlato così: "La sua anima e il suo cuore sono candidi come era la mia anima nel giorno della mia prima Comunione.". Era questa l'espressione che usavo quando volevo parlare di una cosa molto bianca.

Non sognavo neppure, in quel momento, ciò che sarebbe accaduto il giorno dopo. Rico­nosco oggi, soltanto oggi, che per Cipriano Giuseppe fu una grazia suprema; allora invece, bambina, provai solo dolore.

Come sempre, di buon mattino, Acacia andò il giorno seguente a portare il caffé al rico­verato. Noi eravamo ancora a tavola per la cola­zione quando essa ritornò con l'involto intatto e molto triste: "Signora Antonietta - disse con voce commossa - è morto Cipriano! E' morto questa notte!"

La mamma uscì in una esclamazione di compassione... E io?... Solo il buon Dio sa il grande dolore che provai. Mi ritirai in camera e piansi la sua scomparsa; per molto tempo sentii il vuoto lasciato da quella morte.

Non mi permisero di andare al Ricovero. Non lo vidi più e non so neppure come lo porta­rono via. A mezzogiorno, di ritorno dalla scuola, non osai neppure volgere il mio sguardo alla fine­stra della stanzetta amica. Essa rimase chiusa per molti giorni finchè un altro povero andò a pren­dere il posto del mio caro Cipriano Giuseppe.

Per un lungo periodo di tempo, con molta nostalgia, sgranai la mia corona bianca del Rosario per l'anima del vecchietto.

"Buon Cipriano Giuseppe, sono certa che tu godi già il tuo e mio Dio e conosci adesso la sua Santissima Madre. La tua piccola "catechi­sta" è ancora qui, in questo mondo tanto brutto, ma per il giorno della sua «Grande Festa» tu, fin da ora sei uno dei suoi invitati.

Verrai col mio Gesù!".

CAPITOLO 14°

ASSALTO AI DOLCI

Impedita dall'Angelo di sottrarre dei dol­ci, sente forte il pentimento per la sua cattiva intenzione.

Poi viene accusata ingiustamente del furto fatto da una compagna e l’Angelo le impedisce di accusare la colpevole, come vorrebbe la ribellione della sua natura.

Durante l'estate, al pomeriggio, Acacia ci accompagnava spesso a passeggio in campagna. Invitavo con noi i bambini del vicinato. Quella volta venne anche Nina.

Giunti in un bel prato, Acacia organizzò una corsa. Secondo il solito, ella aveva portato con sé un cestino di ghiottonerie; prima della gara ce le mostrò e promise ad alta voce: "Chi vince avrà un premio". E' facile immaginare l'al­legria.

Nina corse con ognuna del gruppo, ma fu vinta da tutte. A me successe altrettanto per un dolore improvviso alla milza.

Terminata la gara, Acacia disse, aprendo il cestino misterioso: "Ecco: ho qui una quantità di dolci al latte. Andiamo a visitare Emanuela e poi faremo le parti: chi vinse riceverà due dolci e chi perse ne avrà uno soltanto."

Emanuela era una vecchietta negra, molto ben voluta da tutti; abitava in una casupola vicina. In piccoli gruppi ci dirigemmo là. Alla porta di Emanuela, Acacia depose il cestino sulla soglia, mentre noi entravamo a chiedere alla vecchietta che ci lasciasse cogliere fiori nel suo giardinetto.

Nel frattempo Nina mi si avvicinò per sus­surrarmi: "Vedi, Cecilia, come è cattiva Acacia? I dolci sono di casa tua e vuol dartene uno solo. Diamole una lezione: andiamo al cestino e pren­diamone due per ciascuna".

Mi pareva che Nina avesse proprio ragione e che, dopo tutto, io potessi vantare diritti su tutti i dolci. Ci staccammo dal gruppo e fummo al cesto quasi pieno.

"Che storie - disse Nina - approfittiamo e prendiamone otto: quattro per te e quattro per me". Nina si servì disinvolta e mise i dolci in tasca. Stavo per fare altrettanto quando, già curva sul cestino, sentii sulle mie spalle una ma­no soave, tenera, amica.

Mano santa, assai conosciuta!

Mi alzo immediatamente e giro il capo per cercare il volto santo del mio buon Angelo Cus­tode. Mi fissava triste, triste. Lo vedevo, ma non con gli occhi del corpo, non come vedevo le per­sone: lo vedevo in altro modo.

Nina mi incitò a sbrigarmi: "In fretta, per­chè arrivano le altre!". Intanto masticava i dolci con piacere; aveva appena messo in bocca l'ulti­mo quando apparvero le amiche. Acacia vide subito che il cestino era stato manomesso.

Io ero rimasta sul posto del reato, come inchiodata, mentre Nina se l'era data a gambe. Acacia, stizzita, mi afferrò per una mano e mi gridò: "Brutta golosa affamata! Hai messo il naso nel cestino, eh? Sta bene: le altre avranno il loro dovuto e tu rimarrai senza".

Il castigo non mi costò nulla, perchè mi sentivo davvero pentita; sinceramente pentita per l'azione che ero stata sul punto di commettere.

Mi si presentò subito alla fantasia la spina con cui avevo tentato di ferire il capo divino di Gesù. Guardai più volte il mio buon Angelo Cus­tode: ma, se mentre stavo per introdurre le mani nel cestino egli era triste, ora non lo era più. Questa sua grande, immensa bontà, mi commos­se ancor più e aumentò il mio pentimento.

Ritornate al prato, Acacia divise i dolci. Io me ne stetti isolata dal gruppo delle amiche, umiliata per la mia brutta azione.

Nessuna sapeva ciò che Nina aveva fatto: se ne stava tranquilla insieme alle altre. Quando io vidi Acacia metterle in mano i dolci come a tutte le altre, sentii dentro di me una scintilla di indignazione, di ribellione, pensando nello stes­so tempo: "Acacia è ingiusta; Nina ha già preso i dolci, se li è mangiati e Acacia gliene dona degli altri". Non riflettevo che Acacia, sempre così giusta, ignorava la colpa di Nina.

Indignata e ribelle, mi sentii violentemente spinta a precipitarmi da Acacia ad accusare la colpe­vole che faceva coro con le altre nel ridersi di me.

Però, con la stessa rapidità dei miei movi­menti, la santa mano del mio buon Angelo Custode mi impedì di avanzare e di parlare. Il suo volto era triste. Il mio dolore si fece allora così forte e vivo, che ruppi in un pianto dirotto.

Acacia, evidentemente, pensò che io pian­gessi per il castigo inflittomi e, con mia pena, mi invitò ad avvicinarmi.

Guardai il mio buon Angelo Custode: era tornato contento! La mia commozione fu così grande che corsi da Acacia, mi buttai tra le sue braccia, mi strinsi a lei e piansi, piansi per since­ro pentimento. Acacia mi offrì i dolci che erano avanzati, ma non li assaggiai. Non ne ebbi la forza: sentivo di non meritarli.

Per molto tempo, credo per due anni, non misi più in bocca nessun dolce di latte, che pure mi piacevano tanto.

CAPITOLO 15°

LA BAMBOLA DALLE ORBITE VUOTE

L'Angelo le impedisce di sfogare la sua stizza sulla sorellina che le ha rotto la bambola a lei più cara.

In un banco di beneficenza avevo vinto una bambola così grande che quasi non la pote­vo portare... La mamma, per il timore che la rompessi, l'aveva messa in sala sul divano e non mi permetteva di trastullarmi con essa se non quando vi fosse presente Acacia.

Quella bambola era il mio incanto: apriva e chiudeva gli occhi e, tirandole un nastro che aveva appeso alle spalle, chiamava papà e mam­ma.

Mia sorella Adele, a quel tempo, era anco­ra piccolina e comminava appena.

Un giorno Adele, trovata la porta aperta, entrò nel salotto, andò al divano e trascinò a sé la bambola. Non so come non l'abbia rotta; so appena che la bimba fu trovata là a trastullarsi con essa.

Al mio ritorno da scuola, Concetta mi disse: "Cecilia, va a vedere la tua bambola. Adele è stata in salotto."

Mi precipito in salotto e trovo la bambola non più seduta ma coricata... Al posto dei begli occhi azzurri dalle lunghe ciglia, due buchi vuoti ...e brutti! Adele aveva premuto col suo ditino gli occhi, che erano scomparsi nell'inter­no del collo.

Davanti a quel misfatto, in un primo mo­mento rimasi impietrita; poi reagii e, per la forte indignazione, mi sgorgarono grosse lacrime.

Pensai: "Vado a chiamare quella birba, le mostro la bambola e le dò una scarica di schiaffi sulle mani!" Adele era in fondo al corridoio e si trascinava da un muro all'altro come un gattino. Corro per prenderla, piangendo adirata. Non arrivo però nemmeno alla porta, che sento la santa mano del mio buon Angelo Custode impedirmi di camminare. Alzo il capo, come al solito, e vedo il suo santo volto atteggiato a tri­stezza, mentre un'idea subito mi illumina, quasi fosse per una voce distinta: "Adele ha fatto un male inconsciamente, e io voglio picchiarla per­chè sono stizzita."

Io rimasi vinta e piansi assai, non per stiz­za, ma perchè avevo rattristato nuovamente il mio buon Angelo Custode e sentivo che, se era triste lui, anche Gesù lo era.

Sull'istante mi accorsi che il suo santo volto si era subito illuminato! La mia gioia allo­ra fu più grande, molto più grande del dolore che avevo provato nel vedere la mia bambola accecata.

CAPITOLO 16°

IL FURTO DELLE IMMAGINI

Accusata per un furto fatto da una compa­gna, subisce l'umiliazione, freme per giusta indignazione, ma l'Angelo le impedisce di difen­dersi accusando la vera colpevole.

Si era al principio dell'anno scolastico 1908.

Era venuto di moda tra le alunne avere una scatola per collezionarvi immaginette sacre. Si andava a gara nel possedere la scatola più artistica e il maggior numero di immagini. Una immagine di più rappresentava per noi una vittoria, tanta era l'e­mulazione; quando a scuola se ne riceveva una in premio era per noi una giornata degna di memoria.

Di tanto in tanto le esterne portavano la loro scatola a scuola e, nelle ricreazioni, mostra­vano alle compagne le loro collezioni. Allora si approfittava per reciproci scambi, che servivano a completare le nostre raccolte. Un giorno Lilì, la mia vicina di banco, portò anch'essa la sua scatola; già durante le lezioni ce l'aveva pre­sentata di sfuggita; in cortile potemmo contem­plare meglio le sue immagini rare.

Ritornate in classe per l'ultima ora di scuola, ella dovette uscire per la lezione di piano. In sua assenza, vidi la sua vicina di posto mettere nella propria cartella la scatola di Lilì. Non mi ero ingannata davvero, ma, occupata nel mio lavoro, non pensai male, anzi dimenticai l'accaduto. A mezzogiorno ritornammo a casa.

Nella ricreazione del pomeriggio notai tra le alunne un grande mormorio: Lilì non aveva più trovata la scatola e mi accusava come autrice del furto. Fu proprio allora che ricordai quanto era avvenuto al mattino e mi resi conto della brutta azione della mia compagna: aveva rubato!

Un folto gruppo di alunne circondava Lilì ed io, umiliata e addolorata profondamente, las­ciata sola in un canto, mi sentivo ferita dallo sguardo di tutte.

Ad un certo punto, quasi istintivamente, si scatenò in me il sentimento della indignazione e della rivolta. Là nel gruppo vi era anche la col­pevole, ed essa pure mi guardava! Le suore non avevano saputo il fatto. Nel rapido moto di indi­gnazione pensai di farne io l'accusa: "Dirò a madre Raffaella che è stata N.N. a rubare; l'ho vista io; e per di più incolpa me presso le com­pagne."

Ma anche quel giorno non potei fare un passo, perchè sentii subito il mio buon Angelo Custode che me lo impediva. Osservai il suo volto e lo vidi triste. Non compresi come mai si opponesse alla mia legittima difesa. Ora com­prendo: io volevo difendermi con un'accusa, accusa vera, ma sempre accusa.

Il mio buon Angelo Custode vinse anche quella volta.

Rientrammo a scuola, ma non si era fatta luce sul caso; io ero ancora sotto il peso della vergogna: tutte pensavano che io davvero fossi stata la ladra.

Il santo volto del mio buon Angelo Custode, però, era sereno. Solo questo mi poteva consolare, ma quanto grande era la ferita e quanta la vergo­gna che sentivo nel cuore! Mi costò assai quel silenzio.

Anche in casa non dissi nulla...

Qualche tempo dopo, al posto di Lilì riap­parve la scatola delle immagini e io pensai sola­mente così:

"Certamente il buon Angelo Custode di N.N. le comandò la restituzione perchè lei po­tesse confessarsi veramente bene e ridiventare amica del buon Gesù".

CAPITOLO 17°

IN GIOSTRA

Evita di dire alla mamma una bugia, che la giustificherebbe, perchè l'Angelo disapprova, col suo atteggiamento di tristezza.

Subisce il rimprovero meritato, ma è felice perchè sente l'Angelo contento.

Un pomeriggio, all'uscita dalla scuola, le alunne di suor Eugenia avevano con sé del dena­ro: l'avevano portato per 1' adunanza della Con­gregazione Mariana, che poi non ebbe luogo.

Emilia, una delle nostre compagne, ebbe un'idea: "Andiamo tutte in giostra e poi faremo una buona merenda nel bar del giardino; i quat­trini li abbiamo."

La proposta fu accettata ed applaudita. Ci mettemmo subito in cammino. La piazza dove si trovava la giostra era assai lontana dal collegio e più ancora da casa mia. Strada facendo, mi si presentò alla mente questo scrupolo: "Arriverò tardi a casa e la mamma non sarà contenta. In più dovrò alla fine tornarmene sola."

Esposi la mia difficoltà alla compagna Li­dia, che tentò di tranquillizzarmi col dirmi: "Anche noi arriveremo tardi, ma diremo che siamo rimaste a scuola." Tutte le mie compagne appro­varono. Veramente mi attirava il desiderio di andare in giostra e più ancora la prospettiva della merenda, e la seguii.

Sulla giostra ci divertimmo assai, quantun­que vi fossero lunghi intervalli di attesa per la ressa dei bambini.

Infine si fece la merenda e poi Lidia ed Elsa mi accompagnarono fino all'angolo della via più prossima alla casa.

Fin qui tutto era andato bene e io ritornavo svelta e spensierata con la mia cartella sotto il braccio, quando, improvvisamente, un pensiero mi turbò: "Come scusarmi? Dirò che sono stata a scuola; la mamma ci crederà e non ci farà caso".

Sarebbe stata la prima volta, nei miei otto anni, che avrei mentito. Ma nella mia mente si ingaggiò un contrasto di pensieri: "Se tutte le com­pagne diranno la stessa cosa, non potrò anch'io fare come loro?..."

In quella lotta interna tra me e me, il mio buon Angelo Custode, che mi aveva accompa­gnata alla giostra senza opposizioni, mi obbliga­va ora ad alzare il capo per fissarlo in volto: era velato di tristezza perchè io volevo configgere una spina nel capo santo di Gesù. Immediatamente la decisione che io stavo per prendere di mentire alla mamma si cambiò nel proposito di dirle francamente dove ero stata.

Andai a casa trafelata per la corsa. Acacia era già uscita a cercarmi.

Raccontai tutto alla mamma. Non approvò e mi rimproverò come meritavo. Il mio buon Angelo Custode però era di nuovo contento e io mi sentii felice.

CAPITOLO 18°

IL PADRONE DEL CIRCO

L'Angelo la libera, con una forza sensibi­le, dal pericolo di essere in balia del padrone del circo.

Nel 1908, quando noi abitavamo a Gia­guarào, arrivò un circo assai famoso che impiantò le sue baracche a due isolati da casa nostra. Per andare a scuola dovevamo passare necessaria­mente di là.

Una sera papà ci condusse allo spettacolo. Papà e mamma non lo reputarono gran cosa, ma io ne rimasi entusiasta e sarei ritornata ogni sera. Mi piacquero i cagnolini che salivano lungo una scala di corda e, dall'alto, si lasciavano ca­dere su di un gran lenzuolo che alcuni uomini tenevano spiegato; mi divertì pure una giovane che rimaneva sospesa, con i piedi, ad un trape­zio. Ma più di tutto mi incantò un pagliaccio dalla faccia rotonda, incipriata, che faceva ca­priole con tanta destrezza e velocità da sembrare una palla in movimento.

Mi ero creata l'illusione che i saltimbanchi fossero gente molto differente da noi: me ne feci un alto concetto perchè non riuscivo a spiegarmi come potessero fare quegli esercizi, tanto più che tra di essi vi erano parecchi fanciulli.

Ogni volta che andavo e tornavo da scuola mi sentivo attratta dal circo e mi soffermavo a lungo a spiare tra le assi del grande portone; le mie sorelle dovevano strapparmi a forza via di là. A occhi aperti sognavo così: "Oh, se là mamma mi lasciasse giocare con le fanciulle del circo, quante cose farebbero forse per divertir­mi!.. E poi, potrei vedere da vicino il pagliac­cio". Sogni inutili, perché la mamma non l'a­vrebbe mai consentito e Acacia non mi avrebbe accompagnata.

Ebbi un giorno un'idea: "Nei pomeriggi in cui le sorelle non hanno lezione io ritorno a casa da sola. Perchè non approfittarne per andare al circo?" Così feci.

Un giorno, alle 15.30, eccomi là al portone dei miei sogni. Vi trovai un gran numero di per­sone di varie età. Io credevo che non fossero del circo perchè non erano vestiti come li avevo visti durante lo spettacolo. Mi rivolsi ad un uomo dalla pipa in bocca, appoggiato ad uno stipite del portone e gli domandai: "E' lei il padrone del circo?"

Alla sua risposta affermativa aggiunsi: "Mi sono piaciuti tanto il pagliaccio e le bambine

che sono venuta a vedere e, se fosse possibile, vorrei giocare con loro."

L'uomo sorrise, mi prese senz'altro per mano e disse: "Vieni pure, che ti accompagno io stesso." Non avevo ancora messo piede nel recinto, che fui impedita nei miei passi dal mio buon Angelo Custode, ma in modo così energico, che mi sentii come trascinata, nella mano destra dal­l'uomo della pipa e, nella sinistra con cui tenevo la cartella, dal mio buon Angelo Custode.

Non so cosa abbia fatto l'Angelo; so sol­tanto che l'uomo mi lasciò bruscamente e mi digrignò rabbioso: "Vattene via, fanciulla!"

Mi prese un grande spavento e fuggii di là a rotta di collo. Giunta all'angolo di casa, guar­dai il mio buon Angelo Custode e, non vedendo­lo triste, si dileguò il mio spavento.

Da quel giorno, il grande circo mi incute paura. Quando vi passavo davanti mi tenevo a debita distanza e non volli più ritornare allo spet­tacolo, neppure se accompagnata.

CAPITOLO 19°

UNA SPILLA PERDUTA

L'Angelo la difende, occultandola ad un ubriaco che sta per andarle addosso.

Il fatto che narrerò ora avvenne nel giorno onomastico di un maggiore (amico di papà). Questi diede un banchetto con danze per gli amici. Papà volle che andassi io pure e, nella festa, mi affidò a un gruppo di signore. Avevo solo 8 anni.

Fui vestita in modo che sembravo una da­migella. Sul mio bell' abito mi avevano fissato, al petto, una bellissima spilla d'oro col mio nome.

Quando uscimmo da casa, la strada era af­follata e vi si camminava a stento. Improv­visamente mi accorsi che mi era caduta la spilla.

Scesi dal marciapiede e mi misi a cercarla, mentre la folla passava senza far conto della mia piccola persona curva nella ricerca del gioiello.

Le signore a cui papà mi aveva affidata si allontanarono senza preoccuparsi di me, nè io mi preoccupai di loro.

Dopo aver cercato per un bel po' senza risultato, tornai in me e, soltanto allora, mi accorsi che ero sola nella strada; si udiva ancora il vocìo della gente che si allontanava sempre più.

Impressionata, mi misi a correre senza saper dove. Avevo passati forse due isolati quando, stanca e con un forte dolore al fianco, mi fermai accostandomi al muro di un crocicchio.

Non si vedeva anima viva. Poco dopo, intravvidi che qualcuno dal fondo dell'isolato avanzava verso di me. Pensando che fosse papà alla mia ricerca, mi mossi per andargli incontro, ma il mio buon Angelo Custode, fino allora quieto, me lo impedì come aveva fatto col pa­drone del circo.

Abituata ad obbedirgli, mi appoggiai di nuovo al muro, tranquillizzata e attesi quell'in­dividuo che si avvicinava sempre più. Inco­minciai a distinguerlo: non era papà, perché aveva un'altra andatura. Infatti era un uomo ubriaco, che dondolava di qua e di là e strasci­nava i piedi, inciampando ad ogni momento.

Non ebbi neppure paura perchè il mio buon Angelo Custode era con me, non al mio fianco come sempre, ma davanti a me: lo senti­vo senza volerlo. Me ne stetti ferma quasi senza respirare; l'uomo mi passò davanti e il mio buon Angelo Custode mi impose di non muo­vermi. L'ubriaco passò brontolando parole che io non compresi; passò battendomi il suo basto­ne sulle gambe, ma non mi vide.

Quando l'uomo si fu allontanato, io, ac­compagnata dal mio buon Angelo Custode, mi diressi verso la casa del maggiore che non era lon­tana. Entrai nel giardino. L'orchestra stava suonan­do davanti alla casa e la via era zeppa di curiosi. Nessuno si preoccupò di me. Cercai papà che, per fortuna, non si era nemmeno accorto della mia assenza.

Riguardo all'ubriaco e alla vicenda di quella notte, devo ancora riconoscere che il mio fedelis­simo e buon Angelo Custode mi salvò da un male che sino ad oggi ignoro per sola grazia di Dio.

CAPITOLO 20°

IL GAMBERO

Fa tenerezza la sua ingenuità, credulità, propria di una che è cresciuta (ha quasi 10 anni) senza aver mai conosciuto bugie o inganni.

Poi, da rilevare come molto educativo, il suo bisogno di confessione.

Segue una generosa riparazione e, infine, la più grande pace nel cuore.

Racconterò ora un fatto che dice quanto io fossi ingenua. In questo caso, come in altri, il Signore e il mio buon Angelo Custode avrebbe­ro potuto intervenire a difendermi illuminando­mi ma invece mi abbandonarono al mio debole raziocinio affinchè toccassi con mano che io do­vevo tutto a loro.

Era l'anno 1910. Un pomeriggio mi tra­stullavo con Isaura, di due o tre anni maggiore di me. Scorrazzavamo saltando con la corda e giungemmo sino all'angolo della casa di Isaura e qui ci fermammo per una breve sosta. Dall'angolo opposto veniva verso di noi un giovanetto sui 14 anni; uno di quei ragazzetti che il popolo chiama "monelli". Lo conoscevo di vista perchè ogni giorno passava di là: era il garzone di qualche bottega.

Isaura, al vederlo, mi disse: "Lo vedi quel ragazzo? Orbene, se noi gli gridiamo «gambe­ro» egli si trasforma in un gambero; se gli gri­diamo «coccodrillo», si trasforma in un cocco­drillo."

Intanto il giovanetto passò oltre; ma sareb­be ripassato per le sue commissioni... Aveva infatti sulle spalle un gran cesto con pacchetti di generi alimentari.

Pensierosa, domandai a Isaura: "Ma poi... si trasforma nuovamente in un ragazzo?" "Oh, sicuro – rispose - perchè i suoi amici chiamano ogni momento. Fanne la prova: quando ritorna digli: «gambero», «coccodrillo» e vedrai."

"Gli dirò solo «gambero» perchè è un ani­male piccolo; coccodrillo no, non glielo dico: è un animale troppo feroce, ne avrei paura. E poi gli costerebbe troppo trasformarsi in coccodril­lo. Il fenomeno mi interessava assai; la mia fan­tasia ne era incatenata.

Dopo breve riflessione insistetti: "Ma il poveretto non soffre con quella trasformazio­ne?" "Niente affatto, anzi pare che ci trovi un certo gusto" mi rispose Isaura.

Aspettammo alquanto e, finalmente, il gar­zoncello fu di ritorno. Isaura mi disse: "Io rimango qui sulla porta mentre tu lo vai ad aspet­tare allo spigolo della casa: se ci sono persone che lo vedono, non si trasforma".

Curiosa di vedere un ragazzo trasformarsi in animale, io andai di filato al luogo strategico. Quando il monello mi fu proprio davanti, gli gridai ripetutamente: "gambero! gambero!"

Non so dire quale fu la mia delusione quando vidi che il giovanetto, invece di trasfor­marsi in un bel gambero, si infuriò contro di me. Rallentò la corsa della bicicletta, ma per fortuna non scese a terra. Però mentre si allontanava mi gridò minaccioso: "Me la pagherai ben cara!".

Io rimasi come intontita. Isaura si era nas­costa nell'atrio di casa sua e rideva a più non posso. Io non capivo perchè ridesse tanto. Ella sapeva benissimo che il ragazzetto si sarebbe indispettito.

Passarono alcuni giorni. Un pomeriggio andavo da sola verso la scuola quando mi incon­trai col giovanetto che, al riconoscermi, mi disse venendomi incontro: "Adesso vedrai chi è il gambero!" Senza cerimonie mi diede un pugno in un braccio e scappò via.

Timida come ero, invece di proseguire verso la scuola, ritornai a casa e raccontai tutto alla mamma. Lei si incolleri, non con me ma col ragazzo e mi disse: "Doveva venire a fare le sue lamentele a me e non picchiarti. Le cose non finiranno qui."

Non ricordo quanto tempo trascorse. Noi abitavamo presso il comandante del reggimento ed ogni giovedì c'era concerto di banda davanti alla sua casa. Seduto sul marciapiede tra gli altri ragazzi stava un giorno quel garzoncello ad ascoltare la musica. La mamma lo vide é mandò l'attendente di papà a prenderlo per un braccio.

Quando i due arrivarono nell'atrio di casa, l'attendente gli diede una batosta a suon di cia­batta. Il ragazzo si mise a piangere disperata­mente. Acacia, che era con me sulla terrazza, mi disse: "E' il garzone che sta prendendo la paga di ciò che ti ha fatto".

Stavo per dire: "ben data!", ma il mio bu­on Angelo Custode mi troncò la prima sillaba in bocca. Lo guardai in volto e lo vidi triste. Con­temporaneamente mi invase l'anima una profon­da compassione per il ragazzo. Corsi verso l'a­trio per intercedere per lui, ma l'attendente l'a­veva già spedito.

Ritornai sulla terrazza e mi misi a piangere di pena per lui e di pentimento per averlo accu­sato. Chiesi perdono a Gesù e al mio buon Angelo Custode, riconoscendo la mia colpa: se io non lo avessi accusato alla mamma, non lo avrebbero picchiato. E pensavo tra me: "infine, egli mi diede solo un pugno con la sua forza di fanciullo e prese in cambio parecchie busse dal­l'attendente che è un uomo."

Se avessi potuto confessarmi subito lo a­vrei fatto, ma sino al sabato non era possibile. Questo pensiero aggiunse un altro dispiacere nella mia anima. Poi, anche se avessi potuto confessarmi, a quell'ora era già troppo tardi: incominciava ad imbrunire; Acacia, l'unica che avrebbe potuto accompagnarmi, si disponeva già a preparare la cena.

In quella lotta di spirito, pensai persino di fuggire da sola fino al Collegio, da padre Gof­fredo... ma improvvisamente alzai gli occhi verso il mio buon Angelo Custode e - oh, gioia! - vidi che non era più triste. Certo, il buon Gesù e lui mi avevano già perdonata.

Benchè sentissi subito una grande pace, rimase nella mia anima una profonda pena e un vivo pentimento. Se fosse stato li il ragazzo, non so quali prove di amicizia gli avrei dato.

Mi venne in mente, quasi fosse un'ispira­zione, che nel salvadanaio avevo ancora una moneta d'argento. Corsi a prenderla e andai alla pasticceria a comprare dieci sigarette di ciocco­lato.

Il giorno seguente mi misi in vedetta ad aspettare che il ragazzo passasse. Putroppo non

apparve per vario tempo. Forse aveva paura a passare per di lì. Io però mi ero convinta che l'attendente l'avesse picchiato troppo e che il poveretto si fosse ammalato, o addirittura fosse morto! Questa convinzione mi martirizzava sen­za tregua.

Finalmente un giorno, dopo molto tempo, vidi il ragazzo attraversare la strada. Senza titu­banza, corro verso di lui e gli dico: "Ho una co­sa da darti; aspetta che io la vada a prendere. Ho sofferto tanto quando ti hanno picchiato. Aspettami, sai?"

Il ragazzo mi guardò meravigliato e non oppose difficoltà ad aspettarmi. Le sigarette di cioccolata non le avevo più, ma avevo alcune monete d'argento nel salvadanaio. Andai a pren­derle in fretta nel timore che mi fuggisse. For­tunatamente, al mio ritorno, era ancora là. Gli consegnai salvadanaio e monete, tutto. Rimase felice e se ne andò scuotendo il suo tesoro, men­tre io, con la più grande pace nel cuore, mi sof­fermai ancora all'angolo, con il mio buon An­gelo Custode, seguendolo con lo sguardo fino a quando scomparve nella svolta della via.

CAPITOLO 21 °

LO STENDARDO DELLO SPIRITO SANTO

Cecilia sente dal suo Angelo l'ispirazione ad andare lei stessa a chiedere ad ogni soldato che incontrerà per la strada un'offerta per la festa dello Spirito Santo, in cambio del bacio ad una sua medaglietta, poichè la caserma non aveva accolto gli zelatori.

Vince la forte e ben comprensibile ritrosia (non ha ancora 11 anni) e raccoglie una somma che completa con i suoi risparmi, facendo una dolorosa rinuncia.

Ma ha la gioia di leggere poi, nella lista degli offerenti, "un gruppo di soldati "e, soprattutto, può (nella Comunione durante la festa) "godere più sensibilmente la presenza dolcissima del Signore, che si mostrò soddisfatto della sua piccola amica".

Ogni anno, in prossimità della festa dello Spirito Santo, titolare della parrocchia, un grup­po di zelatori portando uno stendardo andava a questuare offerte per la solennità. Non vi era casa o edificio pubblico in cui essi non entrasse­ro per raccogliere le offerte.

In casa nostra ero io stessa che ricevevo gli zelatori. Papà dava la sua elemosina, ma io, di nascosto, davo la mia. Lo stendardo, nello spa­zio di tre giorni, faceva il giro della città e din­torni.

In quell'anno (prima del 1911) accadde che, quando gli zelatori si presentarono come al solito alla caserma, il soldato di picchetto non li lasciò entrare, per ordine del colonnello.

La notizia dell'avvenimento si sparse in un baleno e fu assai commentata. Anche papà ebbe parole di disapprovazione sul conto del suo amico (il colonnello Giuseppe Costa).

Io pure ne rimasi stupefatta e non mi spie­gavo come mai il colonnello fosse diventato così cattivo. Ne provai tanto dispiacere che mi tormentai la mente per ore intere cercando di trovare il modo di riparare quell'affronto al Di­vino Spirito. Per questa intenzione pregai fervo­rosamente. Mi amareggiava la constatazione di tanto ardimento. "Scacciato dalla caserma - di­cevo tra me - scacciato da chi mai avrei creduto capace di tale cosa!"...

Un mattino, mentre prendevo il caffè, la santa mano del mio buon Angelo Custode si posò carezzevole sulla mia testa e una voce se­greta mi sussurrò (era un pensiero, ma molto differente da quelli che avevo comunemente; mi pareva più una voce che un semplice pensiero): "I poveri soldati, dalla fede semplice, sono stati privati del piacere di dare la loro offerta e di ricevere, con la visita dello stendardo sacro, la benedizione del Divino Spirito".

A quella voce, proposi subito di andare io stessa a chiedere l'offerta ai soldati; invece dello stendardo, pensai, darò da baciare la medaglietta dello Spirito Santo che porto sempre al collo.

Il mio amor proprio non mancò di insi­nuarmi che era poco decoroso per una fanciulla chiedere loro l'offerta, fermando dei soldati per la strada; ma vinsi quella insinuazione prote­stando a me stessa: "Anche se mi costa molto, devo riparare, devo rallegrare il Divino Spirito Santo nella sua festa".

Siccome papà mi aveva promesso un paio di scarpe bianche per il giorno della festa, chiesi alla mamma il permesso di andare al negozio per sceglierle. Così, pensavo tra me, potrò incontrarmi con molti soldati. Avvenne infatti come avevo previsto.

Appena fui all'incrocio della via, ecco ve­nire verso di me il primo soldato. Il mio cuore batteva così forte che pareva volesse sfuggirmi. Che vergogna provai in quel momento! Desiderai persino che il soldato sparisse.

Sentii però sulla spalla la santa mano del mio buon Angelo e mi calmai; anzi, mi rallegrai dell'incontro. Era il primo militare che lo Spi­rito Santo mi mandava.

Lo avvicinai e gli dissi: "Soldato, mi scu­si... Io sono rimasta molto male impressionata perché il colonnello non lasciò entrare lo sten­dardo in caserma. I soldati non hanno potuto dare la loro offerta per onorare il Divino Spirito Santo... E io la vado chiedendo a quelli che in­contro".

"Ma certo, fai bene, fanciulla mia: eccoti la mia offerta". Mi rispose così estraendo una moneta e mettendomela in mano.

Respirai profondamente e piena di entusia­smo porsi istantaneamente al caritatevole solda­to la mia medaglietta da baciare. Solo dopo mi ricordai che ai soldati è proibito fare atti simili per la strada.

Per concludere, devo dire che la colletta fruttò 30 cruzeiros e centesimi: un capitale! A onor del vero devo confessare che nessun solda­to mi negò la sua offerta, anzi, furono tutti gene­rosi.

Giunta a casa, chiusi il mucchio di monete nel cassetto del mio tavolo da studio. Poi, pen­sandoci su, mi parve molto meglio cambiarle in un bel biglietto di banca; ma sarebbe stato ne­cessario arrivare a 50 cruzeiros. Come fare? La soluzione non era difficile: bastava rinunciare alle scarpette bianche che avevo deciso di acqui­stare.

L'idea non garbava però alla mia vanità che mi dissuadeva con questa insinuazione: "che figu­ra farai con le scarpe nere e il vestito e le calze bianche? Lo Spirito Santo sarà contento ugual­mente per l'offerta dei soldati."

Il giorno dopo, nell'aprire il cassettino per impacchettare le monete, ecco sulla mia spalla la santa mano dell'Angelo; l'espressione del suo volto mi rivela il desiderio di un mio sacrificio: "Devo rinunciare alle scarpe!", mi proposi all' istante.

Andai da papà e gli dissi che non volevo più le scarpe, ma che avrei preferito il denaro. Egli mi accontentò senza reticenze. Da lui stes­so mi feci cambiare il mucchio di monete con un biglietto bancario nuovissimo; lo chiusi trionfante in una busta, sulla quale scrissi questa spiegazione: "Un gruppo di soldati offre per la festa del Divino Spirito Santo".

Mi recai quindi alla parrocchia e, approfit­tando dell'assenza del parroco e del sacrestano, deposi la busta sul tavolo della sacrestia.

Alla vigilia della solennità ebbi il piacere di leggere nella lista degli offerenti esposta alla porta della chiesa: "Un gruppo di soldati: 50 cruzeiros". Nessuno seppe mai la vera storia di quella offerta.

Andai alla festa con le scarpe nere, ma in compenso potei godere più sensibilmente la pre­senza dolcissima del Signore che si mostrò tanto soddisfatto della sua piccola amica.

Per tutta l'ottava della festa mi consolò la dolcezza del mio buon Angelo Custode.

CAPITOLO 22°

LE OCHE

Un primo moto di egoismo orgoglioso, vinto poi da una generosa riparazione.

Segue una confessione, poi ancora una riparazione che supera il consiglio del confes­sore.

Alla fine, la grande gioia per la dolce approvazione dell'Angelo.

Nel 1911, in una della sue licenze, papà mi aveva portato un bel giocattolo in legno: una contadina che guidava un gruppo di oche.

Il giocattolo aveva le ruote, una specie di carretto. Quando le ruote si mettevano in movi­mento, la contadina muoveva le braccia e le oche muovevano le ali. Ottenuto dalla governante un pezzo di cordicella, lo legai al giocattolo e, quasi giornalmente, mi divertivo a farlo correre sul marciapiede della strada, da uno spigolo all'altro della casa. Era il mio passatempo nelle ore di svago.

Un giorno mi accorsi che un negretto di sette od otto anni stava guardandomi estasiato, ed ogni volta che nella corsa il giocattolo si rovesciava, egli correva a rimetterlo in piedi. Sentivo una specie di soddisfazione nel consta­tare che il giocattolo attirava l'ammirazione del bambino.

Passati due o tre giorni, il negretto, dopo avermi accompagnata con lo sguardo per alcuni giri, si avvicinò con un'arancia in mano e mi domandò: "La signorina vuol scambiare il suo giocattolo con questa arancia?"

La proposta mi sorprese e risposi un po' orgogliosa: "Il mio giocattolo vale più di un sacco di arance! E poi, di arance ne ho quante ne voglio." Il negretto non aggiunse nulla.

Avevo appena pronunciate queste parole, quando sentii la santa mano del mio buon An­gelo Custode. Voleva sussurrarmi qualcosa. Udii nell'anima la sua voce. Lo ascoltai perplessa: dovevo dare al negretto il mio giocattolo, il mio bel giocattolo regalatomi da papà e che mi pia­ceva tanto! Come un lampo mi passò per la mente questo pensiero: "Non glielo posso dare: me lo ha dato papà!" Ma con la stessa rapidità ne seguì un altro: "Il buon Gesù vuole che glielo doni". Guardai il mio buon Angelo Custode: il suo volto non era triste, ma grave come di chi attende una decisione.

Mi dirigo risoluta al bambino dall'arancia in mano, desideroso del giocattolo, e gli dico:

"Prendilo, te lo dono volontieri, è tuo". Rac­colgo in un gomitolo il filo e gli consegno tutto. Quegli rimase trasognato a guardarmi; non si risolveva ad allungare la mano, ma io lo con­vinsi che dicevo sul serio ed egli lo prese. Guardai il mio buon Angelo Custode: ora aveva il volto pieno di dolcezza; quella dolcezza mi diceva che Gesù era soddisfatto della sua Cecilia.

Non sapevo chi fosse più felice in quel mo­mento, se il negretto o io. Mentre scrivo riconosco che la più felice ero io, immensamente di più.

Subito dopo, il mio buon Angelo Custode mi fece capire che io ero stata dura col poveretto. Piansi il mio peccato e il sabato seguente lo con­fessai. Per consiglio di padre Gofferedo (il confes­sore), l'indomani, domenica, portai al parroco il mio giocattolo preferito da sorteggiare fra i bambi­ni poveri che seguivano le lezioni di catechismo.

Veramente il confessore mi aveva chiesto di portare i giocattoli vecchi, che per caso aves­si; ma mentre componevo in una scatola bambo­le senza braccia o senza gambe, tazzine senza manico, lo zuffolo stonato, la palla scolorita, il mio buon Angelo Custode mi mise la sua mano sulla testa.

Interruppi il mio lavoro di confezione e as­coltai la sua voce soave e insistente : "Da' il tuo servizio da the che il colonnello ti portò da Rio de Janeiro". Era nuovo fiammante, non l'avevo ancora usato neppure una volta! Ma a quel consi­glio così categorico, misi senz'altro in un angolo l'involto dei giocattoli vecchi e portai al parroco quella bella scatola con una grande figura a colori, dove era chiuso il servizio delle dodici tazzine.

La dolcezza del mio buon Angelo Custode, che contemplai anche quella volta, valeva bene tutti i giocattoli di questo mondo.

CAPITOLO 23°

AL CINEMA "CHIC"

Durante gli spettacoli, al cinematografo o al teatro, l'Angelo Custode le occulta le scene non buone che le farebbero del male.

Senza svelare il segreto di tale occulta­mento, Cecilia sopporta con fortezza ironici rimproveri di incapacità a descrivere quanto ha visto, cioè che avrebbe dovuto vedere.

Già nell'anno 1912 i cinema della nostra città erano affollatissimi. Le sale si moltiplica­vano. Nelle domeniche vi erano "matinées" ad ogni ora. I proprietari delle sale, più che farsi una concorrenza accanita, si osteggiavano aper­tamente. Oltre alle già esistenti, fu inaugurata da una Società una sala veramente lussuosa, con poltroncine, ventilatori, sale d' aspetto, ecc. e con i biglietti al prezzo delle altre sale.

Le famiglie vi accorrevano al completo. Le "matinées" della domenica erano riser­vate ai bambini, ai quali venivano distribuiti gratuitamente sacchetti di dolciumi e biglietti per la estrazione di un premio che era sorteggia­to ad ogni spettacolo: bambole, giocattoli, pattini, ecc. L'iniziativa attirava al nuovo edificio tutti i fanciulli della città.

Non saprei dire il male morale che cagio­navano quei divertimenti; so però che i padri Premonstratensi vi opposero un altro cinema, con prezzi molto ridotti, per sviare dal pericolo almeno una parte della gente.

Di tutti i films a cui assistetti nel salone popolare dei Padri, ricordo ancora l'intreccio e persino il titolo. Non posso dire lo stesso degli spettacoli a cui assistetti in altre sale, perchè le ali sante del mio buon Angelo Custode mi impe­divano di vedere...

La seconda volta che il mio buon Angelo Custode mi coperse con le sue ali fu al cinema "Chic". Il fatto si svolse così: era stata annun­ziata una serata straordinaria; non si può imma­ginare quale fu il concorso; io vi partecipai con la famiglia.

Era in programma la proiezione del film "La cella numero 13".

Dopo le prime due o tre scene, sentii sulle mie spalle la santa mano del mio buon Angelo Custode e le sue ali si distesero davanti a me co­prendomi completamente lo schermo luminoso della sala. L'Angelo rimase in quella posizione durante tutto lo spettacolo, di modo che io non vidi nulla di ciò che si proiettò sullo schermo.

In altre occasioni, le sante ali mi si stende­vano davanti solo a intervalli, poi si chiudevano e mi permettevano di vedere.

Devo dire però che, siccome la sua mano rimaneva sulla mia spalla, io mi interessavo più di Lui, che era la mia delizia, di quanto non mi interessassi delle scene che si svolgevano davanti a me.

In molte altre circostanze, durante i films, le sante ali mi passavano davanti più rapidamen­te, permettendomi così di vedere quasi tutto. Spesso il mio buon Angelo agiva in quel modo anche durante le rappresentazioni drammatiche. Quante volte la mamma mi diede della "stu­pidina" perchè non sapevo spiegare l'intreccio di un dramma o di un film! E il papà mi diceva: "Cara figliola, devi abituarti a saper descrivere ciò che vedi e a raccontare ciò che odi". Ma io non dissi mai che era il mio buon Angelo Custode che mi impediva di vedere. Da quanti e quanti pericoli a cui fui esposta mi liberò, per grazia speciale di Dio, questo fedele Amico!

CAPITOLO 24°

"FANCIULLA, UN' ELEMOSINA!"

Una generosa elemosina. Poi, bella descrizione della lotta intima nell'affrontare le beffe delle compagne; forza d'animo nel non svelare l'opera buona compiuta, cosa che le evi­terebbe la crudele incomprensione.

Alla fine, anche una vittoria sull'amor proprio: l'Angelo la invita ad accettare un po' di refezione da una compagna, mentre, per la cocente offesa, vorrebbe rifiutare.

Correva l'anno 1913. Era tradizione della nostra scuola organizzare una scampagnata con merenda nel giorno di S. Raffaele, festa onoma­stica della nostra Madre. L'avvenimento era atte­so da tutte. Ogni alunna, sia interna che esterna, doveva portare il cestino con la refezione. In quel­l'anno le sorelle non vennero con me: Dulcea era morta da quattro anni, Giselda aveva terminato la scuola e non frequentava più il Collegio.

Acacia mi preparò il cestino con tutto ciò che io preferivo. All'ora sospirata, mi diressi al Collegio molto lieta. In una mano tenevo il cesti­no, nell'altra una borsa con la frutta.

A due isolati dal Collegio, all'angolo della via, mi imbattei in una mendicante che mi fece questa preghiera: "Signorina, un'elemosina alla vecchia negra che ha tanta fame; oggi non ho ancora mangiato nulla, neppure il caffé".

Per caso avevo, nella tasca del grembiulino, il denaro che mi era rimasto dalla compera della frutta; lo passai senz'altro nelle mani della vec­chietta che mi ringraziò con: "Il buon Dio la ricompensi!"

Ripresi il mio passo; ma non avevo ancor fatto dieci metri di strada, che mi dovetti ferma­re: il mio buon Angelo Custode mi aveva messo la sua santa mano sulla spalla. Compresi che voleva qualcosa da me. Lo fissai in volto: era tri­ste, ma non severo. All'istante rividi nella mia mente la vecchietta. Mi voltai: la poveretta era ancora là, al suo posto. Mi affiorò spontanea una domanda: "Come potrà, quella poveretta, toglier­si la fame con i cinquanta centesimi? Devo darle tutto quello che ho nel cestino. Solo così, dal volto del mio buo Angelo Custode scomparirà la tristezza".

Ritornai presso la povera donna e, con una sveltezza che non mi era abituale, vuotai il cestino e la borsa nel suo grembo dicendole: "È quanto avevo per la passeggiata, ma è tutto per voi che siete ancora digiuna".

Non so quello che la vecchietta disse; no­tai però il suo gesto di meraviglia.

Poi mi lanciai di corsa verso il Collegio, temendo di non avere la forza necessaria per ese­guire fedelmente, cioè senza rimpianti, i desideri del mio buon Angelo Custode.

Presso la scuola mi fermai per scrutare il suo santo volto. Spirava da esso quella dolcezza che mi mostrava l'approvazione del Signore per quanto facevo di bene.

In quella breve sosta nascosi la borsa vuo­ta nel cestino vuoto, chiedendo a me stessa: "Ché farò adesso? Potrò andare alla passeggiata senza la mia merenda?".

In quella indecisione fui sul punto di ritor­nare a casa per rifornirmi nuovamente, ma il mio buon Angelo Custode me lo impediva. "Non vuole che io ritorni, ma vuole che prose­gua", dissi a me stessa.

Ubbidii, ma assai tormentata da una ridda di pensieri: "Che diranno le compagne al vedere il mio cestino vuoto? Mi scherniranno senza dub­bio". Questo timore mi feriva l'anima. Ma la dol­cezza del mio buon Angelo Custode venne a dissi­pare la tempesta ed entrai allegra nella scuola, come se avessi avuto il cestino ripieno dei cibi più gustosi.

Il cortile rigurgitava di fanciulle equipaggiate e con i loro cestini. Nel vederle, avrei vo­luto almeno un pezzo di pane per dare peso al mio cestino; si notava benissimo che era vuoto, mentre quelli delle compagne stavano chiusi a mala pena. In quel benedetto cortile trascorsi momenti penosi anche per questo pensiero: "Come me la caverò poi quando si formeranno i gruppetti per la merenda?".

Finalmente, o disgraziatamente, venne il momento della partenza. Nel mio gruppo vi erano Emma, Maria, Ida, Lidia ed altre. Cammin facen­do ciascuna enumerava le vivande di cui si era provveduta per la refezione; io invece ero molto confusa, in un mutismo perfetto.

Arrivate al prato, ci divertimmo fino al momento di formare i circoli per la merenda. Vi erano gruppi per tutta la estensione del prato.

Io ferma, senza decidermi ad unirmi al mio gruppo, cercai il volto del mio buon Angelo Custode, come a chiedergli aiuto; la dolcezza che notai in lui e che mi deliziava tanto, dissipò il mio malessere. Comprendo adesso quello che allora non sapevo distinguere: ciò che tanto mi dava pena era il timore di vedermi umiliata dalle compagne.

Mi diressi infine verso le mie compagne che mi reclamavano. Anche il mio buon Angelo Custode voleva che andassi. Le amiche, già con i cestini aperti, stavano servendosi, mangiando con appetito.

Lidia si aggrappò al mio cestino e - delu­sione e sorpresa per loro, umiliazione per me! - apparve in pubblico la cruda realtà: il cestino non conteneva che una borsa vuota. Per il prato risuonò una risata che contagiò tutte e divenne generale.

A mala pena io potei trattenere i singhioz­zi. Avrei voluto giustificarmi perchè non mi schernissero; invece mi soffocarono con mille domande e frizzi: "Hai nascosto in qualche parte le tue cose per il timore che te le chiedessimo". "Hai mangiato tutto per approfittare anche del nostro?". "Mi accorsi già nel cortile della scuola che avevi il tuo cestino vuoto". "Dunque, non avevi proprio nulla da prendere a casa tua?".

La misura era colma. Nel mio interno ma­turava la ribellione: "racconterò tutto a madre Raffaella... Che animo cattivo hanno queste fan­ciulle!"

Stavo per scoppiare, per andare dalla Ma­dre, ma il mio buon Angelo Custode mi fermò il passo e le parole.

Ah, come sarei volata via, o almeno, come mi sarei allontanata da là volontieri per unirmi ad un altro gruppo! Ma, per allora, il mio buon Angelo non voleva. Dovevo rimanere là.

Tornai a sedermi tra le compagne, ma con una violenza enorme su me stessa. Lidia mi offrì formaggio e pane. Istintivamente l'amor proprio si ribellò. "No, non accetterò nulla! Non ho biso­gno delle tue cose!". Ma fu un attimo solo. Non ebbi neppure il tempo di tradurre il pensiero in parole perchè con maggior rapidità sentii sulla mia spalla la solita mano. Compresi tutto: "Devo accettare; il mio buon Angelo lo vuole."

Nella lotta tra volontà e amor proprio, la prima riportò vittoria. Accettai quello che le amiche mi offrivano, ma di ogni boccone non sentii neppure il gusto, tanta era la violenza che mi facevo. Però la dolcezza del santo volto vin­se ogni resistenza.

La passeggiata terminò. Nessuno seppe mai la verità di quanto era avvenuto, nè papà, nè mamma, nè madre Raffaella, nè le amiche, nè Acacia, nessuno.

CAPITOLO 25°

LA SCATOLA PER LA SCUOLA

Un sacrificio, suggerito dall'Angelo, in onore della "Mamma del Cielo, per prepararsi degnamente ad entrare tra le "Figlie di Maria".

All'inizio dell'anno scolastico 1914, padre Goffredo, nella confessione, mi diede questo consiglio: "Devi cominciare a lavorarti spiritual­mente per meritare, a dicembre, di essere am­messa tra le Figlie di Maria. Non ti sfugga nes­suna occasione per fare sacrifici in onore della Madonna" (l'anno prima, nel dicembre 1913, avevo ricevuto il nastro verde di Aspirante).

In quello stesso giorno, nel pomeriggio, la Mamma del Cielo chiedeva alla sua piccola figlia il primo sacrificio.

Di ritorno dal Collegio trovai, sul mio tavo­lino da studio, un pacco che papà mi aveva porta­to da Artigas. Era una bella scatola di legno verni­ciato, con matita, riga, penna, temperino, gomma, tagliacarte, ecc. Insomma, conteneva tutto quanto uno studente adopera nella scuola. L'avevo desi­derata tanto da quando, un anno prima, l'avevo vista usare dalle compagne. L’avevo anche chiesta parecchie volte. Adesso, finalmente, mi era giun­ta! Mi sentivo tanto felice che non cessavo di con­templarla.

Anzi, quella sera mi affrettai a fare i com­piti per il piacere di usare la mia scatola senza pari. In suo confronto, come mi parve brutta, inutile, antiquata quella che avevo usata fino allora! "Domani - dicevo a me stessa - porterò al parroco la scatola usata con tutto il contenuto, affinchè se ne serva nella scuola serale, per i giovanetti e i bambini poveri".

Eseguiti i miei compiti, mi misi subito a pulire e a riordinare la vecchia scatola, che av­volsi in un bel foglio di carta.

Quando, avvolto nella stessa carta e legato con lo stesso spago che avevano servito per la nuova, il pacchetto fu confezionato, mi alzai dal tavolino.

Ma ecco che mi assalì un pensiero improv­viso: "Il parroco ha sempre chiesto libri e ogget­ti scolastici di cui vogliamo disfarci... è vero; ma perchè non gli darò io la scatola nuova?"

Mi trovai così in una vera lotta. Questa idea mi urtava non poco, perciò continuavo a trovar scuse. "Ho bisogno di una scatola nuova perché, in fin dei conti, frequento la scuola superiore ... Le compagne hanno una scatola come questa ... Papà me l'ha donata perchè io la usi". Pensai di aver risolto la questione con la decisione di portare al parroco la vecchia scatola.

La presi in mano per andare a deporla in camera presso il libro da Messa che avrei dovu­to usare il giorno dopo; era quasi come un voler confermare la decisione presa.

Ma, per quanto facessi, non riuscii ad arri­vare alla porta. La santa mano del mio buon Angelo Custode posava soavemente sulla mia spalla e mi venne un altro pensiero: "sarebbe questo il primo sacrificio in onore della Ma­donna, per meritare il nastro di Figlia di Maria."

L'agitazione si dileguò. Guardai il santo volto dell'Angelo: era soffuso di quella severità con cui soleva attendere dalla sua piccola Ce­cilia un atto di bontà.

Compresi e decisi: "Non la vecchia, ma la scatola nuova io darò, affinchè il parroco la dia al fanciullo più povero e più diligente della scuola.".

Ritornai al tavolino e, in pochi minuti, era pronto il nuovo pacco, proprio così come lo ave­vo ricevuto.

Però prima di portarlo in camera guardai il santo volto del mio buon Angelo: la sua dolcez­za mi ripagò centuplicato il piccolo sacrificio.

Il giorno seguente, dopo la S.Messa, non uscii in fila con le collegiali perchè avevo biso-

gno di parlare col parroco. Sembrava che egli avesse indovinato il mio sacrificio, perchè mi consegnò in cambio della scatola una bella im­magine della Madonna, con un "grazie" che diceva tutto.

Mi fece molto piacere davvero: l'aspetto soave della Madonna pareva mi dicesse che aveva accettato volontieri il primo sacrificio che avevo fatto in suo onore.

CAPITOLO 26°

IL SACRIFICIO DEI PATTINI

Ancora un sacrificio, seguito dal penti­mento di aver tentennato nel decidersi a farlo. "Mamma del Cielo, Ti chiedo perdono. Non meriti Tu forse il sacrificio dei pattini? Lo giudicai un sacrificio troppo grande. Per­donami!"

Il fatto che ora racconterò avvenne pure nel 1914.

All'inizio dell'inverno si inaugurava una spianata per pattinaggio presso il cinema "Chic". Armanda venne ad invitarmi alla testa. Il gruppo dei pattinatori, per destrezza, celerità e arte, mi entusiasmò.

Quanto mi sarebbe piaciuto essere come loro! Decisi di non spendere più un centesimo senza essermi prima provveduta di un paio di pat­tini...

Ogni domenica Armanda veniva ad invi­tarmi per assistere a quello sport. Una volta mi apparve in casa con un bel paio di pattini nuovi fiammanti, appena comprati.

In poco tempo arrivai anch’io a mettere insieme la somma necessaria per acquistarmeli. "Quando li avrò in mano - pensavo - mi pare che nessuno in questo mondo sarà più felice di me".

La compera avrei potuto farla solo in gior­no di sabato, in cui non avevo lezione al pome­riggio. Armanda mi avrebbe accompagnata al negozio e poi, alla domenica, li avrei usati per la prima volta nella sezione traino.

Alle ore due di un incantevole sabato in­vernale, Armanda e io ci trovammo su un battel­lo che ci avrebbe portate ad Artigas. Sognavo già il mio ritorno.

Vi era sul battello un passeggero, molto conosciuto, che quel mattino stesso mi aveva assolta da tutti i peccati commessi in settimana: padre Goffredo.

Lo salutai col "sia lodato Gesù Cristo" e avrei voluto anche mettermi in piedi davanti a lui per rispetto, ma il dondolare del battello non me lo consentì. Egli rispose al saluto e aggiunse: "Come? Anche Cecilia in viaggio?" E io, nel mio entusiasmo esuberante: "Sì, signor Padre, vado a comprarmi i pattini". Il sacerdote si mise quasi subito a leggere un libro di preghiere e non aggiunse altro.

Però, appena sbarcati ad Artigas, padre Goffredo, passandomi davanti, mi disse: "La Madonna aspetta da te un fioretto".

Il suo consiglio così inaspettato ebbe su di me l'effetto di una bomba scoppiata ai miei piedi. Entrai ugualmente nel porto, ma in una lotta tale che mi fermai quasi attonita senza saper de­cidere se andare avanti o ritornare sui miei passi. Armanda, senza poter capire nulla, dappri­ma mi guardò e poi si impazientì; io non potei dirle altro che: "Aspetta un poco!"

Quando mi assalivano quelle lotte di pen­siero mi pareva di essere in balìa di un mulinel­lo: "Ah, no! E' impossibile! La Madonna non vuole certamente il sacrificio dei pattini. Le ho già dato la scatola di scuola che mi piaceva tanto. Invece di rinunciare ai pattini, di cui sono troppo appassionata, farò un altro sacrificio."

Mi decisi e dissi: "In fretta, Armanda, an­diamo!"

Giunta però a poca distanza dal negozio, mi ricordai di guardare il santo volto del mio buon Angelo Custode. Era soffuso di quella "severità" compassionevole che mi faceva subito capire che cosa aspettava da me. Una grande pena mi inondò il cuore, mentre istintivamente traducevo in pre­ghiera questi pensieri:

"Mamma del Cielo, Ti chiedo perdono. Non meriti Tu forse il sacrificio dei pattini? Lo giudi­cai un sacrificio troppo grande. Perdonami!"

Alcune lagrime mi sfuggirono dagli occhi.

Intanto Armanda, vedendomi nuovamente fer­ma, mi tirò per un braccio e borbottò tra i denti: "Cecilia! Che ragazza indecisa; cammini o no? Sembri addormentata!"

"Armanda, ritorniamo al fiume; non voglio più comprare i pattini - la supplicai - ho deciso di fare diversamente".

Armanda scattò: "Ma tu sei pazza! Non fare storie, via! Siamo venute apposta per i pat­tini e dobbiamo comprarli!"

"No, Armanda, non li voglio. Ti comprerò una bella scatola di dolci e ritorneremo a casa." Armanda si rasserenò. Entrammo in una pasticceria a comprare dolci e riprendemmo la via del ritorno. La bella somma che mi era rima­sta nella borsa sapevo come usarla per riparare la mia mancanza di generosità.

Separatami da Armanda, già presso casa, entrai in una Casa Commerciale e mi feci cam­biare in spiccioli tutto il denaro. Andai poi al Ricovero e distribuii una moneta a tutti i poveri che abitavano nel padiglione in cui era morto Cipriano-Giuseppe, il vecchietto che avevo co­nosciuto.

La mia gioia fu più grande di quella che provò ogni povero e di quella che i pattini stessi mi avrebbero procurata: il mio buon Angelo Custode mi guardò con tutta la sua dolcezza.

CAPITOLO 27°

LA MIA PENSIONE MENSILE

E' il terzo sacrificio descritto fra i tanti offerti alla Madonna nell'anno 1914.

Va notato che si svolge in due fasi: nella seconda, per l'intervento dell'Angelo, la gene­rosità è maggiore che nella prima.

Quando papà riceveva il suo stipendio, donava a ciascuno di noi una piccola somma che potevamo spendere come volevamo. Con­fesso che io sentivo un certo piacere nel potermi comprare personalmente il necessario con "il mio denaro"....

Attendevo con piacere il quindici del mese ed avevo sempre qualche voglietta da soddisfare con, la mia "pensione mensile". In quell'anno 1914 accadde questo.

Avevo sospirato per molto tempo un gioco veduto in casa di Armanda, e un giorno decisi di acquistarlo.

Uscii di casa col mio denaro facendo i miei conti: 7 cruzeiros per il gioco e 3 per il cioccolato (perchè noi giocavamo a cioccolattini). Ma ecco che cosa doveva succedere.

Incontrai per via una ragazzetta, più o meno della mia età, ma sporca e cenciosa, che piangeva davanti ad una bottiglia in cocci e in un lago di petrolio. Mi soffermai a guardare quella scena, con un senso di compassione.

La negretta per la prima ruppe il silenzio, spiegandomi il motivo delle sue lagrime: "Avevo comprato una bottiglia di petrolio per la mia vicina, per guadagnare qualche soldo, ed ora non ho che da pagare. Non guadagnerò nulla e prenderò le busse dalla mamma".

Rattristata per la poverina, pensai che avrei potuto rinunciare in suo favore ai tre cruzeiros destinati ai cioccolatini. Entrai senz'altro in una bottega a scambiarli in spiccioli e con un pugno di monete tornai dalla piccola negra. Ella ebbe un sussulto di gioia; asciugò le lacrime con l'orlo del vestito e mi fece un bel sorriso, mostrando i suoi dentini bianchi.

"Questo è per pagare la bottiglia alla vici­na - le dissi - , questo è per il petrolio e questo per te." Le consegnai in tutto un cruzeiro e cin­quanta. Ella se ne andò.

Ma in quel momento io sentii posarsi sulla mia spalla la mano amica. "Aspetta, vieni qua!", gridai subito alla fanciulla. Avevo capito che il mio buon Angelo Custode mi chiedeva qualco­sa.

La negretta si fermò sorpresa e, forse timo­rosa per la mia chiamata, mi guardò un poco e mi si avvicinò di nuovo.

Non era per me novità ciò che mi avveniva in questi momenti. Sentii questa imposizione: "Devi dare tutti gli altri spiccioli alla negretta: avrà una gioia in più. Ti priverai completamente del cioccolato e sarà un nuovo sacrificio offerto alla Madonna."

"Prendi: anche questo è per te", dissi tosto alla negretta, mettendole in mano il resto dei tre cruzeiros. La fanciulla esultò e mi ringraziò.

Guardai il mio buon Angelo Custode, ma non vidi sul suo volto la dolcezza che speravo. "Che cosa vorrà allora il mio buon Angelo?"

Io non sapevo che fare. Ma ecco, istanta­neamente, un pensiero, quasi suggeritomi da qualcuno: "Non solo gli spiccioli, ma la rinunzia al gioco."

Si sollevò in me la solita lotta: "Già tante volte mi sono privata di cose che deside­ravo!...Eppure, se non faccio questo sacrificio, non meriterò il nastro di Figlia di Maria!"

Come un raggio di grazia, nasce subito in me un grandissimo dispiacere per il mio egoi­smo e, davanti alla negretta stupita, mi scoppia dal cuore un singhiozzo.

Volli nascondere, per quanto mi fosse possibile, le mie lacrime e perciò sviai la sua mera­viglia dicendole: "Voglio darti tutto il denaro che ho qui: è la pensione che papà mi dà ogni mese".

Le indicai infine la mia casa e la invitai a passare da me il giorno quattro di ogni mese per prendere i cinque cruzeiros che le avrei sempre riservato. Così, durante tutto il 1914 fino a di­cembre, donai alla negretta la mia "ambita pen­sione".

Ma in verità ne ricevetti ogni volta un'altra di maggior valore: la dolcezza del mio buon Angelo Custode e, a fine d'anno, il "nastro az­zurro" tanto desiderato.

CAPITOLO 28°

LA "BATTIBECCO"

Per fare un'opera di carità, affronta con coraggio un gruppo di monelli schiamazzanti, sollecitata ed aiutata dall'Angelo. In un primo momento deve anche soffrire per l'incompren­sione della donna che sta aiutando.

Alla fine, sente l'Angelo sussurrarle: "Gesù è contento della sua piccola": ne viene inondata di gioia, gioia che le fa dimenticare la ferita fatta­si durante la sua opera di carità.

Eravamo nel 1915. Viveva a Giaguarào una mendicante, sui cinquant'anni, che era divenuta popolare per le sue fattezze marcatamente brutte.

I bambini la credevano una strega e ne avevano paura. Era soprannominata "Battibecco", perchè molto ciarliera e bisticciona.

Nei pomeriggi estivi, quando io di solito studiavo in giardino, udivo spesso i ragazzi gri­darle: "Battibecco, Battibecco!" La mendicante si infuriava, lanciava loro dei sassi e minacciava giuste vendette.

A quella scena io dovevo interrompere il mio studio per i sentimenti di compassione che

provavo verso la poveretta e per i pensieri che mi assalivano.

'Forse - pensavo - quand' ella era piccola ebbe una casa e buoni genitori, poi essi mori­rono lasciandola così randagia..."

Questa considerazione mi riempiva il cu­ore del timore di perdere i miei genitori o di dovermi separare da loro.

Madre Raffaella ci aveva dotto molte volte che un aspetto brutto può nascondere un'anima bellissima. "Chissà - pensavo - che anche la povera "Battibecco" non abbia un'anima bianca come la mia nel giorno della prima Comunione e che non formi l'incanto di Gesù e del suo Angelo Custode! I ragazzi non riflettono su que­ste cose".

Ogni mattina l'infelice mendicante andava ad una segheria e ne ritornava con un sacco di trucioli per la sua stufa.

La incontrai un giorno mentre, in compa­gnia di Armanda, rincasavo dal campo di patti­naggio. Al suo passaggio si alzava, in un cre­scendo continuo, un vero pandemonio di fischi e risate. La poveretta, sotto il peso dei trucioli, non si era accorta che le avevano legato al sacco una lunga cordicella alla cui estremità era stata ag­ganciata una latta che, trascinata sul lastricato, richiamava col suo rumore l'attenzione di tutti.

A quello spettacolo sentii più voglia di piangere che di ridere, sebbene in verità avesse il suo non so che di buffo. Celai però la mia pena per non essere schernita. Tra fischi e risate, tra frizzi e battimani, l'infelice continuava il suo cammino, con, quella coda di metri e metri che strisciava sulle pietre della strada.

In quel mentre mi domandai: "E se io andassi a staccarle là cordicella?"

Ma scacciai subito quel pensiero per la ripu­gnanza che mi destava: "No, assolutamente, no! tutti mi guarderebbero e quella turba di monelli mi canzonerebbe. Che vergogna; proverei!

Che impressione farei io col correre per la strada dietro alla poveretta, confusa tra i ragaz­zacci? No, non voglio pensarci!"

Questi pensieri si succedevano nella mia mente con la rapidità del baleno, quando mi accorsi all'improvviso che la mano del mio buon Angelo Custode mi accarezzava il capo. Fra quelle carezze mi sussurrava:

"E se fossi tu al posto della povera infeli­ce, non ringrazieresti la mano caritatevole che venisse a liberarti da così grande umiliazione? Va'! Gesù te lo chiede".

Mi fermai di botto; guardai la mendicante per misurare la distanza tra me e lei: era quasi di un isolato di case. La turba dei monelli mi pareva aumentasse sempre più. Alle porte e alle fine­stre non vidi se non gente, molta gente!

Fissai il mio buon Angelo Custode che mi apparve in quella severità, un poco triste, con cui era solito mostrarsi quando mi richiedeva qualche sacrificio.

Non vidi più nulla. Istantaneamente confi­dai ad Armanda: "Vado a staccare quella corda dal sacco!" Armanda mi prese per il vestito do­mandandomi imperiosamente: "Sei pazza? Sarai fischiata insieme alla vecchia!" Ma io non dubi­tai più; non l'ascoltai neppure.

Mi precipitai in direzione della pezzente, se­guita dalla turba di ragazzi. Senza riflettere su cosa avrei dovuto fare, presi in mano la latta e ten­tai di strappare la cordicella. L'infelice senti lo strappo e, dubitando forse che i monelli volessero prenderle il sacco, si fermò e lo tirò a sé con forza, in modo che la latta mi aprì nel braccio una larga ferita. Ancora oggi ne conservo la cicatrice.

Allora io corsi vicino alla poveretta per spiegarle tutto; ma ella, accecata come era, non mi comprese e mi investì adirata. La vergogna per quella scenata in pubblico mi allibì. Udii appena gli scherni dei monelli e mi parve di vedere le centinaia di sguardi fissi su di me come se fossi stata la protagonista di una com­media di cattivo genere.

Avrei voluto fuggirmene per i fatti miei, ma il buon Angelo Custode me lo impedì. Dovevo strappare la cordicella; egli lo esigeva.

Finalmente, la mendicante comprese e, tranquillizzata sul mio conto, mi consentì di compiere l'opera mia. "Grazie, signorina" mi disse. E continuò commossa: "Vi è ancora nel mondo chi ha compassione di me?"

Dimenticai all'istante l'umiliazione subita e aiutai la meschina a mettersi il sacco sulle spalle; quindi me ne andai per i fatti miei, senza neppure volgermi indietro.

Poco dopo mi accorsi che il sangue scorre­va sul mio braccio e che avevo macchiato il mio vestito. Armanda, che mi aveva attesa e cammi­nava senza dir parola, mi fasciò la ferita con il fazzoletto e voleva accompagnarmi a casa; però, temendo che ella raccontasse tutto alla mamma, io insistetti per tornare a casa sola. Affinchè nes­suno mi vedesse prima che mi fossi messa in assetto, entrai in casa dal cancello dell'orto.

Mentre in camera mi disinfettavo la ferita che cominciava a farmi male, la santa mano del mio buon Angelo Custode mi accarezzava. Lo fissai in volto, da cui traspariva un'infinita dol­cezza e lo udii sussurrarmi: "Gesù è tanto con­tento della sua piccola!" .

Inondata di gioia, non pensai più alla ferita.

CAPITOLO 29°

ANIME IMMORTALI SOTTO I CENCI

Con un coraggio superiore alla sua età, riesce a compiere un'opera di carità molto ripu­gnante, aiutata dall'Angelo.

Ne consegue una felicità grande: "ebbi la sensazione di vivere in Cielo; anche Gesù rima­se con me, quasi come nella santa Comunione".

Gesù si sente amato quando è amato un fratello, specie se povero... di qui, il vincolo d'amore sentito più forte, più profondo.

Nella confessione seguente narrai a padre Goffredo quanto mi era accaduto (con la "Bat­tibecco"). Egli mi ascoltò, poi concluse: "Ed ora facciamo un patto che sarà senza dubbio gradito a Gesù. Domani, domenica, tu andrai a casa della povera vecchia mendicante e ti prenderai cura, della sua pulizia. Io andrò poi a prendermi cura della sua anima".

La proposta veniva in buon punto: io avevo un buon gruzzolo di denaro ricevuto da papà ed avrei potuto comperare sandali, calze e una sapo­netta per la mendicante. La mamma, a sua volta, mi avrebbe dato certamente biancheria e vestiti.

Dopo la santa Messa domenicale, preparai il necessario per la visita alla povera vecchia: non dimenticai, oltre ad un po' di viveri, di por­tare le forbici e un po' di brillantina, perchè mi era sembrato che la poveretta non si fosse petti­nata da tempo. Con la brillantina il mio lavoro sarebbe stato assai più facile.

Poi uscii e mi diressi al Ricovero, dove trovai la "Battibecco" rannicchiata sulla porta della sua cameretta. Entrata in camera con lei per mostrarle quanto le avevo portato, dovetti più volte reprimere i conati di vomito..

"Buona Maria - le dissi - voglio lasciarvi pulita pulita. Vi ho portato saponetta e brillanti­na". Essa non fece obiezioni, anzi si entusiasmò.

Però la mia missione mi parve subito diffi­cilissima: non sapevo, in verità, da che parte cominciare. Me la cavai in questo modo: le chiesi dapprima una bacinella e me ne presentò una assai piccola; poi le consegnai la saponetta invi­tandola a lavarsi la faccia. Si sottomise umil­mente ai miei ordini e le piacque il profumo della saponetta, ma non rimase pulita come avrei volu­to io.

Mi decisi allora a prendere il mio fazzolet­to, ancora di bucato. Attinsi altra acqua, lo insa­ponai ben bene e lo strofinai io stessa sul collo e sulle orecchie della poveretta. Quando mi parve sufficiente, le chiesi di risciacquarsi ben bene. Si doveva fare la stessa cosa per i piedi: la invi­tai a sedersi e le consegnai il fazzoletto insapo­nato affinchè si lavasse lei stessa, perchè il puzzo che la sua persona emanava mi era quasi insopportabile. Mi sentivo così nauseàta che mi pareva mi venissero a mancare le forze; avrei voluto uscire per una boccata d'aria e dissi tra me: "Non ne posso più; dirò a padre Goffredo che è un incarico difficile e troppo superiore alle mie forze".

Quando però tentai di andarmene in corti­le, la santa mano del mio buon Angelo Custode mi spinse per il corridoio verso l'interno della cameretta.

Mi ricordai allora che "il contratto era assai gradito a Gesù", come padre Goffredo si era espresso; per questo dovevo assoggettarmi a quel lavoro nel miglior modo possibile.

Rientrai senza titubanze nella camera; la poveretta stava ancora lavandosi i piedi, ma il fazzoletto era irriconoscibile; l'acqua era diven­tata nera e spessa. Giela cambiai con altra acqua limpida. Osservai, ora che lo strato di sudiciume era scomparso, che nei piedi deformati vi erano delle ferite; le unghie erano lunghissime. Quando terminò di lavarsi, si asciugò con un cencio e io mi misi a tagliarle le unghie. Cominciai dalle mani; ma la nausea fu più forte della mia volontà e il vomito mi giunse alla gola prima che avessi potuto soffocarlo. Il mio vesti­to rimase tutto macchiato.

La mano del mio buon Angelo custode si posò sulla mia testa. Con una forza che non era più soltanto la mia, le tagliai le unghie delle mani e dei piedi.

Restavano ancora da rassettare i capelli. Guardando quella povera testa scarmigliata, sentii venir meno il mio coraggio. La santa ma­no, però, era sempre sul mio capo, più che per proteggermi, per sostenere la mia volontà. Versai la brillantina nelle mie mani; ma quando la volli cospargere su quel capo, provai una tale nausea che rigettai per la seconda volta. Persino le mie mani, untuose per la brillantina, mi ripu­gnavano in modo incredibile. Non so poi descri­vere la sensazione provata nel pettinare quei capelli. Quella testa sembrava piuttosto quella di un animale che di una persona.

Terminata la pulizia, era necessario farle indossare la biancheria e il vestito che la mam­ma mi aveva dato. Lo fece da sola mentre io andai alla vasca del cortile a lavarmi le mani ributtanti. Quando rientrai, stava mettendosi le calze e i sandali.

Appena fu pronta, le dissi: "Adesso siete pulita e più bella. Attenta a non sporcarvi più. -Vi meritate un buon spuntino."

La poveretta aveva ubbidito come un agnello: aveva ubbidito in tutto, allegra e spiri­tosa. La lasciai dopo di averle consegnato un bel pane e marmellata che sbocconcellò subito con voracità.

Io rincasai di corsa, vergognandomi quasi di me stessa, tanto ero in disordine.

Sentii da quel momento la mano del mio bu­on Angelo Custode passare sul mio capo e la sen­tii così per tutto il giorno. Ebbi la sensazione di vivere in Cielo; anche Gesù rimase con me quasi come nella santa Comunione.

Quello stesso pomeriggio padre Goffredo fece visita alla povera mendicante e, nella confes­sione del sabato successivo, mi disse: "Il buon Gesù non si pentì di aver firmato il nostro contrat­to. Egli è contentissimo di te. L'anima della men­dicante è bianca, bianca. Lunedì scorso ricevette la santa Comunione. Ho l'impressione che l'infelice non vivrà per molto tempo, perciò la visito soven­te. Tu però, Cecilia, non andare più a farle visita."

Una settimana dopo, tornata dalla Messa, fui colta da una notizia: la povera Maria aveva avuto una sincope mentre usciva dalla chiesa. Fu portata in braccio al Ricovero, ma vi giunse morta.

In segreto piansi di pena e, mi pare, anche di nostalgia per la mia poveretta.

Ogni volta che io pregavo per lei, il mio buon Angelo Custode posava dolcemente la sua mano sul mio capo. E questo avvenne per lungo tempo.

Quando l'Angelo tralasciò di farlo, un pen­siero mi illuminò la mente: "Maria è entrata in Cielo".

Sia glorificato Dio e insieme la fedeltà del mio Angelo, per la pochezza della sua piccola creatura che non fece nulla da sé.

CAPITOLO 30°

IL DOMINO NERO

A 15 anni, dopo un primo ballo di carne­vale con un domino mascherato, angosciata, cerca la zia, o almeno una compagna.

Il domino le prende la mano destra per accompagnarla, ma, come nell'episodio del padrone del circo, Cecilia sente la "santa ma­no" dell'Angelo che le impedisce di muoversi, mentre vede un cattivo lampeggiare negli occhi del domino che, stizzito per la resistenza, la lascia e scompare nel buio della strada bronto­lando parole a lei sconosciute.

La "santa mano" ora posa ancora sulla sua spalla, "non più energicamente, ma soave e compassionevole" e l'espressione dolcissima del volto santo le dà conforto.

Carnevale del 1915. Non si parlava che di balli, di cortei, di maschere, di reginette. L'entusiasmo mi contagiò. Dissi alla mam­ma che anch'io desideravo il mio costume e l'ot­tenni subito. La zia Emma si incaricò di confe­zionarmi un bellissimo costume messicano. Siccome non avevo mai partecipato a feste del genere, la zia mi insegnò le regole dell'eti­chetta. Mi impressionai un poco quando disse che avrei dovuto pure danzare: "Ormai non sei più bambina... devi danzare... E... sbagliando si impara", fu la sua conclusione.

Se non avessi già avuto in mio potere il costume, confesso che avrei rinunciato alla festa. Mi riprese poi l'entusiasmo quando vidi alcuni costumi delle mie amiche. La rivalità dei due club della città spaventò un po' la mamma che temeva qualche sgradevole incidente.

Ma, quando venne il carro delle maschere a prenderci a casa, i giovanotti le assicurarono che non sarebbe accaduto nulla di male. La mamma si tranquillizzò e noi partimmo.

Il luogo del convegno era la casa della reginetta del club. Vi era una quantità di carri addobbati per la sfilata ed un numero stragrande di bambine, di fanciulle, di ragazze.

Due uomini si interessarono di me e mi mise­ro a sedere su un carro, tra due vestite alla cinese; dietro di noi sedevano due "guardie svizzere".

In poco tempo si preparò il corteo dei car­ri: si sarebbe fatto il giro della piazza prima di entrare solennemente nel club.

Appena ci mettemmo in marcia per la sfi­lata, cominciai a sentirmi male. Il gas delle luci, il fumo dei bengala sembravano asfissiarmi.

Non tardai a pentirmi di aver preso parte a quel divertimento, tanto più che mi trovavo tra gente che non conoscevo: le mie amiche erano in altri gruppi, su altri carri.

Alla grandiosità dello spettacolo che mi metteva soggezione, all'impressione di trovarmi senza le mie amiche, all'odore nauseante dei ben­gala, si aggiunse la preoccupazione per il ballo, sempre più imminente e di cui la zia Emma mi aveva parlato. Non so dire come mi sentii scon­volta. Quando arrivammo al club si formò il cor­teo. Si unirono tutte le persone in costume e io cercai invano qualche volto noto, tra quella molti­tudine di maschere.

Appena la reginetta della festa fu posta sul suo trono, le coppie cominciarono a sfilare per il ballo. Sentii nell'anima una profonda angustia e, senza volerlo, gridai: "Mio caro Amico!" ( inten­devo invocare il mio buon Angelo Custode). Una voce mi rispose pronta pronta: "Sig­norina!" Mi volsi indietro e mi trovai, invece, fac­cia a faccia con un "Dómmo" vestito di seta, con la maschera sugli occhi, che mi si presentò come un compagno (di ballo). "Signorina, andiamo! Un balletto!".

Io, delusa e impacciata, gli risposi quasi supplicante: "Non so danzare! Conosco solo le danze che mi insegnò Acacia".

Il "Domino nero" rise di gusto e riprese: "Signorina, non c'è pericolo di errare: io la gui­derò e mi terrò ben onorato di esserle pruno maestro di danza".

Non potei schermirmi ed accettai, entrando con lui nella sala, con le molte coppie che sfila­vano in un lungo corteo. Intanto incominciarono la musica e la danza. I miei passi, lo avvertivo anch'io, erano incerti e senz'arte; mi sentivo fuori di battuta, ma il mio maestro mi incorag­giava con la sua maestria e agilità.

Quando terminò il primo ballo e ci si doveva recare in una seconda salami staccai dalla fila e dal mio compagno, cercando avidamente con lo sguardo la zia o, almeno, un'amica. Ma il Domino nero mi seguì. Egli, dopo tutto, mi ispirava una certa fiducia. Mi offerse il braccio dicendomi: "Sono il suo compagno." Osai ancora obiettargli che cer­cavo qualcuna delle mie conoscenti e, incorag­giata dalle sue domande gentili, spiegai come fossero vestite. Egli mi affermò categoricamente di averle viste uscire in direzione di un altro club. Allora, nel sentirmi sola, provai una gran­de voglia di piangere. Ma il Domino, che dove­va aver capito la mia angustia, intervenne: "La condurrò io stesso all'altro club; non tema".

Mi rallegrai alquanto e lo ringraziai, accet­tando riconoscente la sua offerta.

"Mi attenda qui, - mi disse - vado a pren­dere la mia automobile".

Io mi fermai nell'atrio del club.

Dopo brevi istanti ritornò e: "Andiamo, signorina" mi disse gentilmente.

Sul pianerottolo dello scalone mi offri la mano, ma, nell'atto di dargli la destra, sentii che il mio buon Angelo Custode mi prendeva per la sinistra.

Mi ricordai in quel momento dell'avventura occorsami nel 1904, quando mi avevano pure presa per mano al portone del circo. Fissai in volto il Domino nero e vidi attraverso la masche­ra i suoi occhi lampeggianti come quelli del padrone del circo. La sua mano inguantata strin­geva la mia e, con forza, voleva obbligarmi a scendere la scalinata.

Dalla parte opposta la santa mano del mio Angelo Custode mi tratteneva con energia. Si ripeteva proprio la scena dell'anno 1904.

Il Domino nero mi incuteva spavento, men­tre mi trascinava quasi senza riuscire a farmi fare un solo passo avanti; l'altra mano me lo impediva energicamente.

Infine il giovanotto, vista la mia resistenza, mi impose, non più in modo cavalleresco ma con prepotenza: "Andiamo! In fretta!" mentre con violenti strappi tentava di trascinarmi.

Quando capì che non riusciva nel suo in­tento; molto rabbioso, pronunciando tra i denti alcune frasi tronche che non compresi, si preci­pitò per la scalinata sparendo nella via e nell'o­scurità della notte.

La mano santa posava ancora, non più energicamente, ma soave e compassionevole, sulla mia spalla; dal volto santo si sprigionava una dolcezza che mi dava conforto.

Ritornai al salone dove, dopo molte ricer­che, trovai la zia e la nonna che mi cercavano. Venne poi un giovane senza maschera ad invitarmi ad un ballo e la nonna mi obbligò ad accettare. L'Angelo mio Custode mi seguiva per difendermi da ogni pericolo.

Ma dopo quella lezione tragica non entrai mai più in nessun ballo. L'insegnamento fu salu­tare.

Il mio buon Angelo Custode, ancora una volta, mi aveva strappato da un grave pericolo che sino ad oggi, per grazia di Dio, ignoro.

CAPITOLO 31°

L'ESAME DI STORIA

Qui risaltano due motivi di salutare rifles­sione:

1°- La sua devozione alla Madonna e all'Angelo non la favorisce nel sorteggio del­l'argomento di storia da trattare, come, invo­cando, si era illusa. La santa devozione non è un "ombrello" che ripara dagli infortunii.

2°- Il radicato principio di onestà viene ride­stato dall' avvertimento dell'Angelo; così Cecilia rinuncia ad uno scambio di argomenti, per lei van­taggioso, con una compagna e subisce la dolorosa conseguenza di perdere il primo posto in classifica e quindi anche di non dare una gioia al suo caris­simo papà, che le aveva pure promesso un premio.

Ma... "non ebbi il dono di papà, ma provai la dolcezza del mio buon Angelo, che valeva assai di più".

Era cominciato l'anno scolastico 1915. Pa­pà mi stimolava moltissimo nei miei studi e dava molta importanza ai miei voti di studio e di condotta. Egli esultava quando sulla pagella poteva leggere: "Prima della classe".

Io ero felice della gioia dei miei cari. Però, solo due volte ottenni il primo posto: ero quasi sempre la seconda in classifica. Avevo una com­pagna intelligente, diligente e buona che si me­ritava bene quel primo posto. Le due volte che fui classificata come prima fu a parità di voti con la mia compagna.

In quell'anno, all'inizio del primo trime­stre, papà mi disse: "Se otterrai il primo posto mi darai una grande consolazione e io ti farò un bel regalo".

Glielo promisi e mi sforzai, con la diligenza e lo studio, di accontentarlo. Posso affermare che non vi era una sola materia che mi preoccupasse.

Tutti i giorni imploravo, anzitutto, l'aiuto del mio buon Angelo Custode e, in Collegio, visitavo sempre l'altare della Madonna; non so quante novene abbia fatto per ottenere di essere la prima della classe. Agivo in quel modo per dare gioia a papà più che per il premio.

Volevo tanto bene a papà e non sapevo desiderare cosa migliore che quella di fargli un piacere.

Verso la fine del trimestre mi sentivo sicu­ra in tutte le materie. Già tenevo per certo che avrei raggiunto la parità di voti con Firmina. Nessuno certamente sapeva del mio sforzo nel­l'applicarmi allo studio.

Un giorno però mi svegliai con la febbre e dovetti rimanere a letto. Perdetti due settimane di scuola.

Rimasta indietro nel programma, dovetti studiare di più, assai di più per mettermi alla pari con le altre. Studiai molto e riuscii quasi nell'intento; mi mancava un solo capitolo di sto­ria universale: quello sulla guerra di Troia.

Non mi fu assolutamnte possibile leggerlo e tentavo di illudermi dicendo tra me:

"Sarà possibile che all'esame mi capiti proprio quel punto? Oh, l'Angelo mio e la Ma­donna non lo permetteranno!"

Si entrò in esami; mi riuscirono tanto bene tutte le materie: ero sicura che avrei ottenuto almeno la parità di voti con Firmina. Giunse anche il mio turno per la storia. Quel benedetto capitolo, con uno sforzo sovrumano, riuscii appe­na a leggerlo, ma era così lungo che non lo potei fissare bene. Ricordavo solo, forse perchè inte­ressante, la vicenda del cavallo colossale nel cui ventre si erano nascosti i guerrieri greci. Quel= l'esame doveva esser fatto anche per iscritto.

Alla cattedra di suor Clementina estrassi a sorte il punto da svolgere. Misi la mano nella ' scatola, pescai il foglietto arrotolato, che aprii tremando... vi era scritto: "La guerra di Troia' 1 Ebbi appena il tempo di avvertire l'amara delusione che qualcuno mi tirò per il vestito: era una mia compagna, tremante e nervosa come me. "Scambiamoci il punto - mi sussurrò - Io so meglio la guerra di Troia del punto sorteggiato; guardalo: "La guerra medicea" .

Ebbi un lampo di luce: quel capitolo lo sa­pevo così bene da meritarmi un 10. Sarei stata salva, salvissima!

Più rapida del pensiero, infatti non ebbi neppure il tempo di riflettere sulla proposta del­la compagna, sento sulla mia spalla la santa mano del mio buon Angelo Custode.

Quell'intervento improvviso del mio gran­de Amico suscitò in me questa riflessione: "Che razza di proposta! Che azione bassa commette­resti! E' preferibile uno zero e la lealtà, che un dieci con la bugia."

Ferma nella mia convinzione, risposi con franchezza alla compagna: "Sarebbe ingannare l'insegnante; lo vedi bene, mia cara. Tu sai meglio il tuo punto di quanto io sappia quello toccato a me. Teniamoci al sorteggio".

Suor Clementina, appena vide che ciascu­na aveva estratto, ordinò di recarci ai nostri posti.

Dallo scrutinio risultò Firmina la prima della classe ed io la quarta: su quella benedetta guerra di Troia io non avevo scritto quasi nulla.

Il voto che mi buscai fu come una macchia nera sulla mia pagella: zero in storia universale. Quando, imbarazzata, presentai i voti a papà, la santa mano del mio buon Angelo Custode si posò sulla mia spalla.

Non ebbi il dono di papà, ma provai la dol­cezza del mio buon Angelo, che valeva assai di più.

Se papà non ebbe la gioia che attendeva in quella occasione, l'ebbe poi molte volte, ma so­lo dopo che Firmina si fu trasferita in un'altra città.

CAPITOLO 32°

NEL BAR

Sente il suo braccio tenuto fermo dall'Angelo mentre sta per portare alle labbra un secondo bicchierino di liquore, offertole da un giovane al bar della sala da ballo, dove si era recata controvoglia per insistente invito. Nella sua ingenuità non pensava al male che le avrebbe potuto fare, ma era preoccupata solo di dover accettare per "quelle norme di etichetta" che il papà le aveva raccomandato.

Giunse il carnevale del 1916.

In prossimità del carnevale vi era la tradi­zione dei balli per invito. I giovani interveniva­no in massa e le famiglie al completo. Un gior­no il ballo si svolse nel club Giaguanese.

Fui anch'io, quell'anno, trascinata dall'en­tusiasmo di un gruppo di amiche. Per essere sin­cera, devo dire che i balli non mi piacevano, come neppure le riunioni di società; i convene­voli, le etichette mi nauseavano: vedevo in que­ste cose tanta insincerità e finzione che contra­stavano col mio carattere.

Papà una volta mi disse che gli avevo fatto fare brutta figura per aver ricusato uno champa­gne in una festa di compleanno di un amico capi­tano, obbligandolo così a darmi un'altra bevan­da. Il vero motivo era che a me piacque sempre dire e fare le cose come le sentivo dentro.

In quel ricevimento dato dal capitano avevo notato un altro particolare: un certo dottor Car­neiro andava e veniva per la sala pavoneggiando­si e parlando in modo così difficile e con tanta enfasi, che io non lo comprendevo, nè sapevo cosa rispondergli. Ricordo che ad un certo punto gli dissi: "Lei non potrebbe parlare in modo più facile con me? Papà in casa e più ancora le inse­gnantì in Collegio non mi parlano così."

Egli, sghignazzando, mi canzonò chiaman­domi "ingenua collegiale".

Per questi ed altri motivi, quelle riunioni mi snervavano e vi andavo solo quando ero molto pregata dalle mie compagne.

Ritornando al mio racconto, narrerò che fui a quel ballo perchè invitata insistentemente e mi si vestì con un domino giallo.

Entrata nel salone, mi ero messa tranquilla­mente a sedere vicino a Firmina, quando due gio­vanotti vennero ad invitarci per la danza. Io, non sapendo danzare bene, lo dissi con tanta forza e franchezza al giovane che mi aveva invitata.

Ma egli insistette con tante parole di lode,

che accettai per non lasciarlo male (solo ora comprendo che i suoi erano solo complimenti e nulla più).

Ad un certo punto, con la scusa che mi sentivo stanca, volli ritornare al mio posto. Il giovane mi accompagnò al bar, mi fece sedere ad un tavolino ed ordinò una bibita.

Io avrei preferito un gelato, ma ricordando il fatto dello champagne, non feci resistenza e bevvi. Il giovanotto, che non conoscevo, mi riempì una seconda volta il bicchierino.

Sicura che, rifiutando, avrei mancato alla famosa etichetta, portai il bicchierino alla bocca. Ma non mi bagnai neppure il labbro perchè il mio braccio fu tenuto dalla mano del mio buon Angelo Custode.

Si chiacchierò alquanto e il giovanotto insi­stette perchè bevessi. Ma come fare? L'op­posizione dell'Angelo era chiara: il suo intervento mi assicurava che io non venivo meno alla buona educazione; ringraziai il giovane scusandomi così: " la ringrazio di cuore, ma io non prendo mai più di un bicchierino di qualsiasi bibita".

Egli ribatté che il bicchierino era tanto pic­colo, che non mi avrebbe fatto male; ma la ma­no del mio buon Angelo Custode rimase ferma sulla mia spalla ed io ubbidii a Lui.

Sono certa che se il mio buon Angelo Custode non si fosse opposto avrei bevuto tanti bicchierini quanti me ne fossero stati offerti, perchè non riflettevo già al male che potevano farmi, ma mi preoccupavo di quanto papà mi aveva detto circa le norme dell'etichetta.

Il mio buon Angelo Custode tenne la mano sulla mia spalla durante tutto il tempo in cui rimasi a tavolino col giovanotto. Il suo santo volto manifestava una severità tranquilla, ma tri­ste.

Ad un certo momento compresi che gli dispiaceva che io rimanessi lì col giovane. Senza raggiri o preamboli, ringraziai e feci l'atto di andarmene. Il giovanotto si offrì per accompa­gnarmi, ma io gli dissi che assolutamente volevo ritornare da sola. Così feci.

Mentre scrivo, a questa età di maggiore esperienza, riconosco che il mio buon Angelo Custode mi liberò allora da un nuovo male. Non avrebbe fatto sentire in quel modo la sua presen­za e il suo intervento, se non ci fosse stato un pericolo per l'anima mia.

CAPITOLO 33°

PREGHIERA NOTTURNA IN GINOCCHIO

In un periodo in cui il papà è in trasferta lontano, Cecilia ogni notte, prima di addormen­tarsi, prega il suo Angelo di andare presso il papà insieme al di lui Angelo, appena lei sia addormentata.

In una notte già inoltrata, si sveglia di soprassalto e "sente" che il papà e in pericolo. Prega con tutta la sua forza, con tutto il suo fer­vore, senza la presenza del suo Angelo (che è presso il papà).

Ad un certo momento, "ecco la mano san­ta sul mio capo ad accarezzarmi e la voce del mio Angelo a sussurrarmi: «Basta! Papà è salvo!»

Giorni dopo, la famiglia verrà a sapere che in quella precisa notte il papà è scampato miracolosamente da un grande incendio.

Papà si trovava ancora in un distaccamento militare nell' Alto Uruguai. In quella regione non vi erano case, perciò il governo aveva fatto costruire per lui una casetta di legno imbiancata e bene ammobiliata. Egli aveva al suo servizio una cuoca e una domestica.

Il pensiero di papà, come ho già detto altrove, non mi abbandonava mai; talvolta anzi ero preoccupata per il timore che si ammalasse in un luogo tanto lontano e senza una persona di famiglia.

Di notte ero incapace di addormentarmi prima di aver pregato per lui un Rosario; facevo anche qualche sacrificio allo stesso scopo. La preghiera al mio buon Angelo, in quell'ora, era invariabilmente questa: "Appena io abbia chiuso i miei occhi, va' da papà a vigilarlo insieme al suo Angelo Custode". Solo dopo di aver appagato questo mio bisogno potevo addormentarmi.

Un giorno sentii più del solito la nostalgia del mio papà. Aumentai il numero dei miei pic­coli sacrifici e pregai più di un Rosario alla Madonna secondo le sue intenzioni e necessità.

Già a letto, feci al mio buon Angelo Cus­tode la mia solita preghiera.

A notte inoltrata, quando tutti dormivano, mi svegliai d' improvviso col pensiero del papà lontano. Siccome, per quanto facessi, non riusci­vo a riaddormentarmi, mi misi a pregare il Rosario da coricata: il freddo della stagione in­vernale non mi invitava a mettermi in ginoc­chio.

Cominciai la prima decina; non ero giunta forse alla terza "Ave Maria", che un forte impul­so mi obbligò ad alzarmi e a mettermi in ginoc­chio sul pavimento. Ai piedi del letto pregai col fervore di cui ero capace, convinta che papà, in quel momento, aveva bisogno di preghiere. Pre­gai, oltre al Rosario, una corona di "Ricordati, o piissima Vergine Maria.." e infine una corona di "Angele Dei".

Il mio buon Angelo, fino allora, non si era fatto sentire, ma non ne fui sorpresa perchè l'a­vevo mandato da papà prima di addormentarmi. Terminata la corona degli "Angele Dei", ne co­minciai una dia: Gloria Patri", tanto forte era in me la disposizione a pregare nonostante il fred­do, l'oscurità e il silenzio della notte.

Alla fine della corona di "Gloria Patri", ec­co la mano santa sul mio capri ad accarezzarmi e la voce dell'Angelo a sussurrarmi: "Basta! Papà è salvo!"

Lo sentivo; ne ero convinta. Ritornai a let­to e mi addormentai senza fatica.

Dopo vari giorni, la mamma ricevette una lettera di papà con ritagli di un giornale in cui si leggeva questa notizia:

Papà aveva fatto mettere in prigione un soldato per mancanza disciplinare. Due o tre notti dopo (e precisamente quella in cui mi ero svegliata per pregare) papà fu svegliato da un grande incendio. Avendo compreso che la casa era ormai in fiamme, tentò di passare nella camera attigua per salvare documenti importan­ti. Impossibile! Provò per altre porte... ma impossibile. Era completamente attorniato dalle fiamme. Corse disperatamente alla finestra ma, a causa del grande calore, non la poté aprire. Fortuna volle che, poco dopo, la finestra, già in fiamme, si spalancasse da sola con una forza violenta, cosicchè il papà ebbe il tempo di salta­re all'aperto per dare 1' allarme. Il soccorso venne, ma assai in ritardo.

Fatte le investigazioni, si scoprì che il sol­dato aveva appiccato il fuoco per vendetta. Lo confessò il colpevole stesso.

lo sono fermamente convinta che sia stato il mio buon Angelo Custode a salvare papà: che sia andato egli stesso ad aprire la finestra da cui papà poté sfuggire alle fiamme. Per questo mo­tivo, quella notte sentii sul mio capo la sua santa mano.

Non raccontai mai a nessuno quanto. ora ho scritto.

CAPITOLO 34°

LETTURA PROIBITA

Consapevole del grande male che può fare un libro cattivo, sceglie sempre le sue letture dietro indicazione di chi la sa consigliare bene. Una volta che si dimentica di fare questo, mentre sta aprendo la prima pagina di un romanzo, la "santa mano" dell'Angelo si posa sulla sua facendo chiudere il libro che cade a terra. Comprende che non deve leggerlo e lo rimanda alla compagna che glielo aveva presta­to, soffrendo per il pentimento di non essersi consultata prima.

Nel 1916 il ginnasio "Santo Spirito" fu chiuso e io perdetti il mio santo Direttore Spirituale; sentii molto la sua mancanza perchè era lui che ogni settimana, da ormai 10 anni, mi tracciava il programma di condotta.

Nel 1917 entrai in una nuova fase. Mi ve­nivano scrupoli per ogni azione che compivo. Avevo l'impressione di fare tutto male. Questo tormento mi durò molto tempo. Avevo però molto amore per Gesù, la Madonna e il mio buon Angelo Custode, alle cui ispirazioni, secondo la mia coscienza, mi pare, non fui mai volontariamente infedele. Che grazia straordina­ria, mio Dio!

In quel periodo aumentò in me, in modo speciale, l'orrore al peccato; credo sia stato que­sto il motivo per cui superai quella fase difficile della mia vita senza mancanze notevoli.

Nei giorni di vacanza e in quelli festivi, per distrarre la mia anima, stanca per la continua lotta, mi diedi alla lettura.

La biblioteca della scuola ogni settimana, dal sabato al lunedì, metteva i suoi libri a nostra disposizione.

Fino ad allora era stato p. Goffredo a sugge­rirmi le letture e, nelle adunanze mariane, ci parla­va spesso del pericolo dei libri cattivi. Il suo inse­gnamento mi incusse un timore tale per le cattive letture che se mi fosse capitato tra mano un libro sconosciuto, ero incapace di aprirlo, a meno che le circostanze non mi obbligassero a farlo.

Con la sua partenza, venne a mancare il mio saggio consigliere e avrei dovuto guidarmi da sola. Anche nella scelta dei libri del Collegio dovevo agire con attenzione perchè tempo prima, avendo parlato al padre di un libro consi­gliatomi da una compagna, egli mi aveva detto: "Non è cattivo, tutt'altro; ma Cecilia non lo deve leggere, nè ora nè più tardi."

Venutomi tra le mani due volte per caso, posso dire che, grazie a Dio, non lo aprii neppu­re.

Tutti i sabati, quando andavo alla biblioteca, consultavo 1' elenco pregando il mio buon Angelo Custode di scegliere per me il libro adatto. Senza farmene accorgere, chiudevo gli occhi e, facendo scorrere il dito sulla lista, sceglievo un numero a sorte. Un sabato la biblioteca non fu aperta e con mio grande dispiacere rimasi senza libro. A casa mi sentii sperduta senza qualcosa da leggere per occupare il tempo.

Mi ricordai ad un tratto che Enrichetta, una mia compagna cui piaceva la lettura, aveva sem­pre molti libri. Le scrissi un biglietto chiedendo­gliene uno in prestito, a suo piacere.

Il desiderio di leggere mi fece dimenticare 1ì per lì il timore che mi venisse tra le mani un libro non buono. Non so nemmeno io il perchè; insomma, non ci pensai. Enrichetta mi accon­tentò subito inviadomi un bel romanzo nuovissi­mo intitolato: "Le vestali".

Abituata a leggere in camera mia, mi ritirai là. Però, mentre stavo aprendo la prima pagina, la santa mano del mio buon Angelo Custode si posò energicamente sulla mia, in modo che il libro si chiuse e mi cadde per terra. Alzai il capo per scrutare il suo volto: era triste e severo. Compresi nello stesso istante che non dovevo leggere quel romanzo.

Mi invase l'anima un pentimento repentino per aver preso un libro, per la prima voltai in vita mia, senza aver comultato il mio buon Angelo Custode, com'ero solita fare dopo la partenza di padre Goffredo.

Mi inginocchiai e chiesi perdono alla Ma­donna e al mio buon Angelo, piangendo a calde lacrime.

Alcuni istanti dopo, mentre continuavo a detestare il mio fallo, con la testa appoggiata al letto, la santa mano si posò su di me in atto di carezza. Era Lui, il mio buon Amico, nuova­mente contento della sua piccola Cecilia pentita. Presi il libro quasi ad occhi chiusi, lo avvolsi come era giunto nelle mie mani e lo rinviai alla compagna, scrivendole con franchezza che non lo potevo leggere per essermi dimenticata di chiede­re il permesso al mio confessore.

CAPITOLO 35°

"SE PARLI TI STROZZO"

L'Angelo mette in fuga un ubriaco armato che la minaccia.

Un anno dopo l'incendio di cui ho scritto, il governo vendette la colonia militare e papà fu destinato a Porto Alegre. Noi rimanemmo a Giaguarào.

La mamma tutte le sere dopo cena andava a visitare la nonna; conduceva i fratelli con sé e io rimanevo a casa a studiare in compagnia delle governanti e di Abelino, l'attendente di papà.

Io ero molto lenta a fare i miei compiti, perciò il tempo del pomeriggio mi era appena sufficiente.

Una sera d'estate mi ero messa a studiare sulla veranda; tutte le porte erano aperte, anche quella che dava sulla strada.

Seduta al mio solito posto presso un angolo del tavolo, ogni tanto, senza accorgemene, mi distraevo pensando a papà sempre assente. Il mio sguardo si fissava di tanto in tanto sulla sedia a sdraio dove egli abitualmente si metteva a leggere il giornale; rimpiangevo la sua cara compagnia, specialmente in quell'ora in cui la casa rimaneva quasi deserta. Che forte nostalgia sentivo!

Il mio buon Angelo Custode mi era sempre vicino, benchè se ne stesse quieto, lasciandomi attendere ai miei lavori e alle mie riflessioni.

Durante l'assenza di papà, quando anche la mamma era fuori, Abelino aveva l' odine di non uscire di casa per non lasciarmi sola.

Quella sera si intrattenne a lungo nel sot­terraneo a riempire i grandi recipienti dell'acqua per l'uso di casa, mentre Acacia e Concetta rior­dinavano la cucina.

Io ero tanto assorta, che un uomo entrò in casa senza che me ne accorgessi; si mise di fronte a me dal lato opposto del tavolo.

Ad un certo punto alzai gli occhi e mi resi conto di quella visita misteriosa... Lascio imma­ginare lo stupore che ne provai!

La voce mi morì in gola e le membra mi si paralizzarono; volevo gridare, volevo fuggire ... Ma fui incapace di farlo, tanto era lo spavento.

L'uomo mi parve un po' ubriaco, perchè si teneva aggrappato al tavolo con ambe le mani, colto ogni tanto da improvvisi barcollamenti, che si sforzava di dominare con mosse brusche. Era alto e forte, dall'aspetto cattivo e dallo sguardo alquanto inebetito. Alla cintura portava il fodero con un coltellaccio lungo ed appuntito.

Per alcuni istanti ci fissammo a vicenda, immobili; poi egli tentò di avvicinarsi a me, girando attorno al tavolo, sempre appoggiato e un po' curvo e, minaccioso, mi intimò in lingua uruguaiana: "Se parli ti strozzo".

Io intanto mi ero alzata e giravo intorno al tavolo per sfuggirgli. Un senso di terrore mi inva­se tanto che con grande sforzo e solo con voce soffocata potei invocare l'Angelo mio Custode. Subitamente la mano dell'Angelo si posò sulla mia spalla e, come per incanto, il terrore mi lasciò.

Ripreso il mio coraggio, chiamai Acacia; l'intruso se ne fuggì provvidenzialmente buttan­do a terra una sedia.

Ancora sotto quello sbigottimento, mi fer­mai per osservare il santo volto del mio Angelo. Era severo! Solo allora potei riflettere sulla mia colpa: appena la mamma era uscita, avevo manda­to Abelino a comprarmi del cioccolato, distoglien­dolo dal suo lavoro nel sotterraneo. Egli si era rifiutato, adducendo la scusa che doveva rimanere in casa finchè la mamma non sarebbe tornata.

Ma io, che non comprendevo certe precau­zioni, avevo insistito tanto che egli, sebbene a malincuore, aveva obbedito.

Quando Abelino rientrò, lo sconosciuto era già lontano, ma il mio pentimento si fece ancor più vivo perché, consegnandomi il pacchetto del cioccolato, l'attendente mi dissse: "Ho fatto tutta una corsa perchè non stavo tranquillo. Un' altra volta, signorina, non mi chieda più una cosa simile, per non farmi demeritare la fiducia che la padrona ha verso di me".

A stento trattenni le lacrime ed ebbi appe­na la forza di ringraziarlo. Non gli narrai l'acca­duto, non per celargli la mia colpa, ma perchè egli, retto e scrupoloso come era nei suoi doveri, si sarebbe rattristato troppo, incolpando forse se stesso, mentre la vera colpevole ero io.

Se la mamma avesse saputo l'accaduto, non so neppure immaginare ciò che gli avrebbe fatto. A questa considerazione non ebbi il coraggio di aprire il pacchetto del cioccolato. Il giorno dopo volli offrirlo intatto al buon Abelino, ma non lo accettò; lo consegnai allora alle governanti.

CAPITOLO 36°

BELLEZZA ABBAGLIANTE

In una certa occasione, sente attrattiva per la bellezza esteriore. L'Angelo la avverte che questa è vana e può anche diventare nociva, se non è curata la bellezza interiore.

Eravamo al termine del 1918, ultimo anno della mia vita collegiale. Le Figlie di Maria della città avevano nel programma annuale una festa a beneficio della Società Operaia e chiese­ro l'aiuto delle Figlie di Maria del Collegio.

Tra i numeri della festa vi era la rappresen­tazione del dramma intitolato "Miriam". Le suore misero a loro disposizione sala e persona­le.

Io fui scelta a rappresentare la parte di Cor­nelia, distinta matrona romana. Accettai il copione con molta naturalezza, senza pensare che ero brut­ta; nè mi passò per la mente cosa avrei potuto fare per apparire di una bellezza abbagliante come esi­geva la parte. Un altro personaggio doveva rap­presentare Faustina, donna romana e sorella di Cornelia, però di aspetto comune. Questa parte toccò ad una compagna che era realmente bella,

ed aveva altre qualità assai più adatte per la mia parte.

Mostrai il copione ai miei e spiegai la trama del dramma. Papà, sempre interessato per tutte le nostre cose, mi ascoltò e poi volle leggere tutto il libretto. Alla fine mi disse: "Il lavoro è molto bello, ma mi pare che le dirigenti non abbiano distribuito bene le parti, per lo meno la tua. La matrona era di una grande bellezza e, come tale, molto orgogliosa: dominava tutti. Come farai a interpretarla bene? Credo che non soddisferai il pubblico".

Era la prima volta che affrontavo la que­stione; mi convinsi subito che l'osservazione di papà era giusta e dissi: "Hai ragione. Quando l'israelita loderà la bellezza abbagliante della figlia del senatore romano e il pubblico si vedrà compàrire questo brutto sgorbio... che delusio­ne!". Papà si mise a ridere, mi attirò a sé, mi abbracciò e accarezzandomi aggiunse: "Domani restituirai il copione dicendone le ragioni e ti offrirai per fare un'altra parte".

Seguii il suo consiglio; mi presentai alla responsabile della festa e le esposi tutto. Ella rise a lungo e poi mi abbracciò concludendo: "Nessuno più di me sente la responsabilità dell'esito della festa. Diventerai bella come Cornelia, vedrai; ti truccheremo con tutta l'arte, sta tranquilla".

Mi pregò di tenermi la parte e io accettai, a condizione di non portarne le conseguenze, qua­lora non riuscissero a rendermi avvenente. Ne riferii ai miei: papà non si oppose, la- namma disse che non sarebbe venuta a teatro per vedere "matrone brutte".

Quando le prove furono a buon punto, si dovette pensare ai costumi romani da indossare. Edvige mi prestò il suo bellissimo vestito da regi­netta dell': ultimo carnevale. Adattarono alla roma­na iLgrande manto di velluto ed ermellino, non irianoarono anelli, braccialetti, il diadema di perle e i grandi orecchini d'oro in stile, nè i sandali di seta bianca con la classica stringa di gallone dorato.

Edvige, molto pratica; si,prese cura,di me e fin dalla vigilia mi ondulò i capelli; poi mi condusse in una casa di bellezza e là mi trucca­rono il volto con latte di giglio, rosso baton, matita e non so quanti altri ingredienti.

Quando fui pronta; tutte mi trovarono bel­la. Mi portarono uno specchio perchè mi con­templa&si anch'io; rimasi soddisfatta della mia bellezza posticcia. Non mi riconoscevo più.

Avendo sentito ripetere tante volte che ero carina, guardandomi ad un certo momento allo spechio mi nacque questo pensiero: "Andrò a comprarmi latte di giglio e tubi gli ingredienti tutti da Edvige per rimanere sempre bella così."

Ma appena concepii questo pensiero, la 4anta mano si posò sulla mia spalla; il volto dell'Angelo si fece paurosamente triste. Ri­conobbi il mio errore e, nel frastuono di voci, di risa, di musica, tra i veli e i fiori, provai il dolore di un grande, di un grandissimo pentimento.

Dentro di me ascoltai la voce amica: "Se tu fossi bella solo come sembri adesso e ti pre­occupassi solo di questo, la tua anima sarebbe deformata orribilmente".

Sciocca che io fui! Ferchè desiderare una bellezza fisica, esterna, se la mia anima era più bella della più abbagliante bellezza fisica?

Se l'avessi potuto fare, mi sarei strappata dalla persona per buttarlo in un canto tutto ciò che da quell'istante mi ripugnò tanto; avrei leva­to dal mio volto quello strato di cosmetici e di tinte che non erano se non una maschera; xTía pensai che era impossibile.

Cominciò la festa, ma la mia anima rimase oppressa dal dolore; fu un dolore che mi salvò. La lezione mi fu salutare, per bontà di Dio e del mio buon Angelo Custode.

Dopo quella occasione non ebbi mai più tentazione di credermi bella, nè più mi preoccu­pai di esserlo.

Una settimana dopo, venne in visita alla città il Vescovo della Diocesi e si ripeté il dramma.

Questa volta però ricusai energicamente ogni dipinto sul volto. Per ordine di suor Cle­mentina usai soltanto un po' di cipria.

Dopo la pettinatura alla romana mi porsero uno specchio e la santa mano si posò di nuovo sulla mia spalla; però il santo volto deliziò la mia anima con la sua dolcezza.